Tutti i limiti del Presidente, a prescindere dalla posizione
Il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge di riforma costituzionale che prevede l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, ossia il cosiddetto “Premierato”.
Si, esiste un diciamo “rapporto politico” tra il capo del Governo e la maggioranza ma fondamentalmente, il rapporto politico poco fa menzionato esiste perché l’attività dell’Esecutivo è resa possibile dall’istituto del voto di fiducia
In effetti, oggi non eleggiamo il Presidente del Consiglio ma i membri del Parlamento, il quale è, appunto, l’organo depositario del potere legislativo per cui, proporre di eleggere direttamente il Presidente del Consiglio può senza ombra di dubbio significare cercare di consolidare il rapporto tra potere esecutivo e maggioranza parlamentare.
Ma, nello specifico, che cosa comporterebbe eleggere (direttamente) il Presidente del Consiglio? Prima di tutto, eleggere direttamente il Presidente del Consiglio dei ministri consentirà agli elettori di votare per eleggere non solo i parlamentari ma anche chi dovrà guidare il Governo, (non a caso, la proposta di riforma prevede che il candidato Premier debba essere obbligatoriamente un parlamentare) per cui, Rebus sic stantibus, la necessità di individuare preliminarmente quello che sarà il Capo del Governo all’interno di una compagine politica si ritiene che significherà rinunciare alla possibilità di nominare presidenti non politici (ossia tecnici) come Mario Draghi e tentare, perciò, di (ri)avvicinare l’elettorato attivo alla politica.
Sebbene la proposta di modificare la Costituzione nel senso fin qui esaminato è, per l’appunto, una proposta già fa da discutere (e preoccupare).
Com’è naturale che sia, la possibilità per l’elettorato attivo di eleggere direttamente il Capo del governo dovrebbe ridimensionare il ruolo del Presidente della Repubblica e questo fatto suscita in non pochi, non poche preoccupazioni.
È certo possibile che molte preoccupazioni osservate nelle ultime ore siano frutto di un pregiudizio politico ma se così non fosse? Cerchiamo di essere precisi (ma soprattutto oggettivi) e definiamo perciò immediatamente ulteriori aspetti della proposta.
Alcuni esperti hanno osservato che il ruolo del Capo dello Stato sarà naturalmente ridimensionato e non solo nelle fasi iniziali del Governo ma anche in caso di crisi: attualmente, in caso di dimissioni, il Presidente della Repubblica può decidere se sciogliere le Camere o affidare l’incarico di formare il Governo ad un terzo soggetto ma la riforma fortemente voluta dall’Esecutivo prevede invece che in caso di crisi il Presidente della Repubblica affidi l’incarico allo stesso Premier o ad un altro parlamentare della stessa maggioranza.
Tuttavia, il punto della proposta che suscita non poche discussioni ha per oggetto non tanto la figura del Premier in sé ma il fatto che non venga posto un limite al numero dei mandati che un Presidente del Consiglio eletto direttamente dal popolo potrà coprire.
In effetti, le democrazie che eleggono le cariche apicali con voto popolare e non per mezzo del Parlamento prevedono un tetto per evitare gli accentramenti di potere.
Ciononostante, attualmente, il pericolo che una democrazia compiuta può correre dobbiamo seriamente chiederci se provenga dall’assenza di un limite al mandato o da altri fattori extra costituzionali come, ad esempio, il rapporto tra la politica e il potere economico.
Certo che, mutatis mutandis, se riforma ci sarà è auspicabile un limite al numero di mandati (soprattutto perché la storia pullula di eccessi fondati su rapporti tossici tra popolo e leader) ma se nel compromesso si può trovare una soluzione che avvicini nuovamente gli elettori alla politica e, ci conseguenza, gli eletti alle loro responsabilità per quale motivo non dovremmo valutare un vero e proprio aggiornamento?
Da quando si è cominciato a discutere della possibilità di “mettere mano” alla Costituzione, salvo pochi, rispettabili casi, la maggioranza delle opinioni a favore o contro la proposta di riforma suggerita dalla maggioranza è stata ispirata di motivazioni prevalentemente ideologiche.
Come già accaduto purtroppo in passato, tutto quello che una parte politica ha proposto è stato immediatamente rifiutato non già in funzione di una critica oggettiva ma in forza di una motivazione prevalentemente capziosa.
È facile, non a caso, guardare al tentativo di Fratelli d’Italia di riformare la Carta come ad un tentativo degno di un movimento di destra di attentare ai valori costituzionali (la storia, ma soprattutto le apparenze aiutano) ma siamo davvero certi che esistano ancora delle concrete differenze in ambito pratico tra destra e sinistra?
Da quando Giorgia Meloni si è insediata a Palazzo Chigi, ha preso posizioni in aperta contraddizione con ciò che aveva dichiarato negli anni precedenti e ciò in ragione del fatto che il Governo italiano (sia esso “azzurro”, “verde”, “rosso” o “giallo”) ha pochi margini di manovra in ambito economico e internazionale.
Discutere di una riforma costituzionale con equilibro e oggettività sarebbe un toccasana per il dibattito pubblico del paese (soprattutto in ragione del fatto che la qualità dello stesso è a dir poco deperita a causa di un sempre crescente acuirsi di un ingombrante manicheismo) ma discutere del ruolo del “sistema Italia” in Europa e nel mondo con altrettanta spontaneità sarebbe ancora più interessante (e, forse, utile).