Elogio di Ian Fleming
“Fleming chi? Quello della Penicillina?”
A Ian Fleming è toccato un destino strano e sebbene infatti il nome dell’uomo che ha abitato i suoi romanzi sia stato conosciuto in tutto il mondo, il suo nome è stato al contrario dimenticato.
Sì, si legge sempre meno, è vero ma anche chi non legge (o legge poco) conosce nomi come Stephen King e Ken Follett per cui credo sia normale chiedersi perché nonostante tutti conoscano James Bond, (quasi) nessuno conosca il nome dello scrittore che lo ha concepito.
Non è da escludere la possibilità che conoscendo ben poco della vita di Ian Fleming sia stato molto più facile parlare e scrivere di James Bond ma è davvero così? E perché conosciamo relativamente poco della vita di Ian Fleming?
James Bond non nasce, probabilmente, in Jamaica nel 1952 ma nel 1941, in Spagna, durante un’operazione denominata “Goldeneye” di cui è responsabile proprio il protagonista della nostra storia: un uomo affascinante, capace e talmente “affamato” di vita da decidere di dedicare gran parte della stessa all’Intelligence e “Al servizio segreto di Sua maestà”.
Dopo l’arruolamento nell’Intelligence navale della Marina britannica nel 1939, Ian Fleming partecipa infatti a numerose operazioni di cui, come successivamente ammetterà, trae ispirazione per i suoi successivi romanzi. Tra le imprese che conduce l’agente 17F, come fu ribattezzato nel servizio, vi fu la creazione di “Trout memo”, un manuale di tecniche di inganno e disinformazione da utilizzare ai danni del nemico, l’Operazione Ruthless, (la quale aveva l’obiettivo di accedere ai cifrari navali della macchina Enigma per consegnarli agli analisti di Bletchley Park) e, infine, la già citata operazione Goldeneye.
Ma è al termine della guerra che Ian Fleming diventa Ian Fleming, l’uomo che crediamo di conoscere, quando un po’ grazie a Goldeneye e un po’ a causa della morte di Muriel Wright, una donna di cui era innamorato e la cui scomparsa ispirerà in maniera drammatica il personaggio di Vesper Lynd, (ri)comincia finalmente a scrivere.
Il ritorno quindi in Giamaica, l’acquisto di una villa che ribattezza “Goldeneye” e quel 15 gennaio del 1952 quando comincia a scrivere di qualcosa che “vede” da un po’ di tempo, un uomo brutale e una partita a carte che forse è accaduta veramente al casino Estorill di Lisbona, sono perciò più di una storia, sono leggenda e le stesse battute con cui ha inizio “Casino royale”, il primo romanzo in cui compare James Bond, sono leggenda: “Fumo, sudore: alle tre del mattino l’odore di un casinò dove si gioca forte è nauseante. Sarà l’odore, o il fumo, o il sudore. Di fatto, il logorio interiore tipico dell’azzardo un misto di avidità, paura e tensione – diventa intollerabile.”
È probabile che prima di Sean Connery e dei film, James Bond sia stato però qualcosa di più di leggenda ma mito, un mito dei nostri giorni ed è altresì probabile che prima di un uomo infallibile, un super uomo che vince sempre sul grande schermo, James Bond sia stato un mito fallibile che ci somiglia troppo (o che perlomeno ci somigliava, troppo).
In altre parole: perché a prescindere dal fatto che Ian Fleming sia stato una spia e che forse James Bond sia nato per rispondere ad una necessità comunicativa fortemente voluta dall’MI6, il suo nome non ci piace e non ci piace l’uomo che ha vissuto i suoi romanzi?
Il regista Martin Campbell, già nel film “Goldeneye” con Pierce Brosnan avvicinò la figura cinematografica all’uomo dei libri ma è nel film “Casino Royale” del 2006 che l’operazione ha definitivamente successo.
Per un appassionato, il film appena ricordato è un pugno nello stomaco e non perché la tortura che il terribile Le chiffre infligge a 007 è spietata ma perché tra quella tortura, il sadismo che la ispira e il tradimento di Vesper Lynd, il primo grande amore di James Bond, esiste un legame fragile e autentico, un legame destinato a spezzare anche l’umanità di un uomo che uccide per mestiere.
Insomma, Ian Fleming è un nome poco conosciuto perché ci racconta qualcosa che deve rimanere segreto e che preferiamo resti tale? Forse sì.
Le pagine che scrive, -liquidate spesso come “pagine di serie b” come purtroppo accaduto anche a Tolkien e Salgari-, sono invece pagine “nostre”, pagine vive e ciniche e sebbene ciò che descrivano non si adattino più di tanto ad un presente impazzito continuano a raccontare bene la nostra essenza e il nostro bisogno di avventura.
Sarà perché è divergente, sarà perché ho conosciuto uno dei miei più cari amici condividendo insieme a lui la scoperta dei suoi libri ma continuo a credere che Ian Fleming sia, in conclusione, un autore a dir poco sottovalutato il cui nome dovrebbe aiutarci a capire non poco il senso della degenerazione artistica alla quale spesso ci condanniamo.
Vero, Ian Fleming non è un autore noto per “accarezzare” il lettore, ma le sue pagine asciutte, a tratti puntuali nel descrivere cose, emozioni e persone, sono pagine piene di vita vera, non vita “da influencer”, vita che ci ostiniamo ad evitare per paura di non si sa bene cosa e a sterilizzare, in modo ossessivo e ipocrita in nome di valori che comunque contraddiciamo.
In parole povere, le pagine di Ian Fleming che raccontano di come una donna possa fare male ad un uomo (può succedere), di come talvolta sia necessario anteporre il dovere ai sentimenti, di come si impari ad apprezzare il bello per fuggire dalla realtà e di come agiscono le grandi potenze- le quali strumentalizzano valori e ideali in cui comunque qualcuno continuerà sempre a credere- sono pagine che hanno raccontato ciò che eravamo ma soprattutto ciò che tutt’ora siamo e imparare quindi a conoscerle è importante perché senza comprensione di ciò che si era, o di ciò che c’è nell’abisso, non può esistere maturazione.
Cito di conseguenza volentieri, anche in questa sede, “Elogio del conflitto” di Miguel Benasayag e Angélique Del Rey perché purtroppo, o per fortuna, “Elogio del conflitto” è uno di quei libri illuminanti che spiegano molto accuratamente l’Essere.
Nel bene o nel male, la confusione intorno all’equivoco per cui il conflitto sia necessariamente un movimento violento per annichilire l’avversario ha negato, secondo gli autori, il confronto costruttivo che è invece alla base della crescita; di conseguenza, la negazione dello stesso, cioè del conflitto, ritorna qui, dopo aver (ri)pensato a Ian Fleming perché dopo aver rimosso il conflitto e dopo aver tentato di rimuovere chi ha descritto bene cosa esso è con la censura, credo sia normale interrogarsi sul senso del nostro ruolo oggi e sul senso per cui imporre trasforma le vittime in carnefici e che l’educazione vera non passa dalla cancellazione ma dalla conoscenza critica.