Storia di un viaggio di fine estate: storia, caratteristiche e prospettive del pensiero anarchico

E’ giusto che tu sappia una cosa, caro lettore: sono molto stanco di camminare gomito a gomito ad un paese i cui princìpi fondanti sono stati relegati in una fogna.

Come ho già fatto in numerose occasioni, “buco lo schermo” e ti guardo in viso per dirti senza troppi giri di parole delle verità che probabilmente non vorrai sentire.

Queste verità sono necessarie, caro lettore e prima di spiegarti la differenza tra anarchia e caos, è giusto che tu sappia quanto difficile sia per me continuare ad accettare l’insostenibile leggerezza del pressapochismo intellettivo delle maggioranze.

No, non credo che l’essere umano riuscirà mai a fare a meno dello Stato e no, non credo pertanto che l’essere umano riuscirà mai ad affrancarsi da quei feticci che guarda per credere di non poter essere in grado di autodeterminarsi.

Mi duole pensare a quanto sia stato difficile nel corso della storia “fare un passo avanti” verso quegli insegnamenti così preziosi che qualcuno ha tentato, invano, di suggerirci ma si sa: “La carne è debole”.

Scopriamo dunque cosa significhi veramente “anarchia” e scopriamo perché fino a quando esisterà la paura dell’orizzonte, continuerà ad esistere lo Stato…

 

An-archia è una parola di origine greca, che significa “senza autorità”.

Sino alla metà del XIX secolo, venne usata esclusivamente in una accezione negativa per tratteggiare i contorni di una situazione caotica; ecco perché, fino alla metà del secolo appena citato, nessun pensatore e nessuna scuola di pensiero rivendicò per sé il termine “anarchico”.

Il primo pensatore che osò rivendicare per sé l’appellativo di “anarchico” fu il pensatore socialista Pierre-Joseph Proudhon, quando pubblicò nel 1840 uno scritto destinato a sconvolgere per sempre la Francia e l’Europa: “Che cos’è la proprietà?”.

Vero, William Godwin visse almeno un secolo prima di Pierre-Joseph Proudhon ma fu quest’ultimo in particolare a garantire per il pensiero anarchico un’eccezione meno negativa e distruttiva…

Ad ogni modo, i valori del pensiero anarchico sono da ricondurre a quelli emersi durante la Rivoluzione francese: libertà, eguaglianza e solidarietà.

Tali valori cardine sono poi gli stessi delle altre due grandi tradizioni di pensiero sviluppatesi a partire dalla Rivoluzione: il liberalismo e il socialismo, ma a differenza di queste ultime due grandi dottrine, l’interpretazione anarchica concilia eguaglianza e libertà.

A differenza del liberalismo e del socialismo che scindono i princìpi di eguaglianza e libertà, il pensiero anarchico non contempla infatti la possibilità che possa esistere libertà senza eguaglianza.

Ma, in concreto, cosa riconosce il pensiero anarchico? E cosa nega?

L’anarchismo non nega una forma specifica di Stato o di gerarchia, bensì rifiuta il dominio, in linea di principio, e combatte di conseguenza ogni manifestazione storica e in particolare ogni manifestazione politica che abbia cristallizzato il dominio (nello specifico, quindi, lo Stato).

L’anarchismo è dunque, in altre parole, la risposta ad un lungo processo di secolarizzazione che ha criticato quelle forme di dominio che non hanno saputo (o voluto) cambiare.

A questo punto, non può che sorgere una domanda: l’anarchismo è un pensiero rivoluzionario?

Anche se nell’anarchismo convivono, a volte in maniera conflittuale, anime diverse, si può certamente guardare al pensiero anarchico come ad un pensiero rivoluzionario, nel suo complesso.

Affinché si possa realizzare una società libera, fondata sull’associazione volontaria e cooperativa degli individui, è necessario sbarazzarsi di tutte le istituzioni fondate sui privilegi e sulla diseguaglianza che discende dal dominio, appunto; e come si può pensare di creare una società scevra dal dominio se non attraverso uno stravolgimento sociale (e ontologico)? Senza quindi una reale rivoluzione delle strutture sociali e delle coscienze individuali?

Ecco perché, l’anarchismo, non si costruisce su una scienza politica definita, perché si prefigge, in buona sostanza, l’obiettivo di risolvere il problema della politica attraverso la rivoluzione: l’eliminazione delle istituzioni che impediscono il libero dispiegarsi dell’autonomia dei singoli e la creazione di strutture dove ogni individuo possa paritariamente accedere alle decisioni che riguardano la comunità in cui vive e possa egualmente prendere parte alla realizzazione e alla distribuzione della ricchezza sociale renderanno superflua la politica intesa come spazio di mediazione tra gruppi sociali antagonistici.

Così, almeno, si presentava l’anarchismo classico, quello cioè nato nella seconda metà del XIX secolo…

Ma dopo? Dopo si è aperta una contraddizione non ancora pienamente risolta, ossia: se l’anarchismo è un prodotto della secolarizzazione, può avere un senso se questo prodotto pretende di essere anche una reazione alla stessa?

Configurandosi come un pensiero sincretico, infatti, (tra libertà ed eguaglianza), l’anarchismo risponde (o tenta di rispondere) a quella stessa secolarizzazione che lo ha prodotto distanziandosi.

Ma come?

La domanda resta ancora insoluta.

Forse l’anarchismo può spiegare “il rifiuto” delle proprie origini grazie ad un’evoluzione contemporanea e grazie ad un’evoluzione del pensiero collettivo? Forse.

In ogni caso, è difficile giungere ad un’analisi teorica completa del pensiero perché in esso sono confluiti diversi pensatori e diverse scuole di pensiero.

Secondo la tradizione, l’anarchismo può essere distinto in due correnti: una considera legittimo il ricorso alla violenza e all’insurrezione armata per distruggere gli istituti del dominio e l’altra, che potremmo definire invece “pedagogica”, ritiene al contrario possibile ogni forma di trasformazione sociale grazie all’educazione del popolo (in un’ottica pacifica e graduale).

Va da sé che queste suddivisioni sono utili semplicemente per fornire un quadro orientativo di ampio respiro poiché, spesso, nella storia, si sono reciprocamente influenzate.

In linea di principio si può affermare che da un punto di vista geografico, la prima corrente abbia maggiormente influenzato le opinioni anarchiche europee e che la seconda corrente abbia influenzato le derive anarchiche principalmente statunitensi.

Ma come guardare oggi all’anarchismo? E cosa apprendere di effettivamente positivo da un pensiero così ampio e complesso?

Se ciò che accomuna le diverse scuole di pensiero è la convinzione che il dominio, e quindi la divisione in classi della società, non sia dovuto a differenze biologiche o a innati istinti di prevaricazione (l’uomo, per natura, non sarebbe quindi “homo homini lupus”), allora può esistere, probabilmente, una possibile convergenza con quell’ideale trasversale che vorrebbe permettere a tutti di combattere le disuguaglianze…

Nella prospettiva dell’anarchismo, gli uomini riuniti in società, una volta presa coscienza che la diseguaglianza sociale e politica altro non è che il prodotto di una conquista dei pochi sui molti, (e la successiva cristallizzazione nelle istituzioni gerarchiche dominanti), possono riorganizzarsi in maniera cooperativa, egualitaria, federativa e orizzontale. Possono, perciò, rinunciare allo Stato in nome di una maggiore responsabilità individuale nel gruppo e a favore del gruppo.

Le premesse dell’anarchismo, simili se non uguali a quelle del liberalismo, rompono così il cerchio: il cerchio della dottrina politica che vede al centro lo Stato.

Superate le gerarchie, superate le delimitazioni che tornano allo Stato, cosa resta, in definitiva?

Da uomo non violento, non riesco a guardare né a John Locke quando estremizzava il diritto di ribellione né all’ala violenta del pensiero anarchico con la sicurezza di chi crede che la violenza possa essere una soluzione.

Da uomo non violento, credo piuttosto interessante quell’approccio propedeutico (ma pur sempre anarchico) che pretende di responsabilizzare l’essere umano e, forse, di cambiarne la natura.

La civiltà è una forzatura? Una catena in grado di frenare l’istinto aggressivo dell’essere umano?

E se riuscissimo non a fare leva sulla necessità, bensì sullo spirito di adattamento per conquistare le nuove generazioni al valore dell’autodisciplina? Riusciremmo a contenere lo Stato? E ad iniziare, forse, un percorso che possa portare alla sua fine?

Se riuscissimo cioè a educare i cittadini all’autosufficienza, riusciremmo a sviluppare in loro una qualche forma di autodisciplina?

E se, a prescindere da tutto, non fosse possibile perché l’essere umano non riuscirà mai a fare quel passo? E se, a prescindere da tutto, l’essere umano non riuscirà mai, neppure, a non accettare un’alternativa all’autodisciplina?

In un momento di forte scoramento in cui non riesco a guardare con fiducia alle Istituzioni del mio paese, sarebbe straordinario sostenere un progetto di riforma che getti le basi per un mondo nuovo libero dal dominio di uno Stato sempre più lontano…ma se lo Stato non fosse altro che un riflesso dell’animo inequivocabilmente corrotto dell’uomo?

Mi costringerebbe a ritornare inevitabilmente ad un punto imprescindibile per me: la differenza tra gli esseri umani, nello specifico una differenza che vuole da una parte esseri umani abbastanza maturi da accettare l’importanza dell’autodisciplina ed esseri umani spaventati dall’idea di non riuscire a capire cosa fare.

Se immaginassimo che domani l’ordine delle cose fosse sovvertito e che i primi, ossia coloro che rompono le catene per guardare fuori dalla caverna guidassero i secondi, non ci troveremmo, forse, di fronte ad una nuova forma di dominio?

E qui sta il punto. Qui è il punto che, a mio avviso, potrebbe consentire a chiunque di respirare “fuori dal cerchio”: quelle capacità e quelle qualità che potrebbero consentirci una qualche forma di dominio dovrebbero piuttosto ispirarci un senso di responsabilità verso il prossimo.

Basterebbe ad annientare la supremazia? Forse.

Forse, dall’incontro di “possibili ragioni di dominio” potrebbe davvero nascere quella condivisione e quella cooperazione tanto care ad un pensiero anarchico incompleto ma, probabilmente, necessario.