Un caffè bollente, grazie
E alla fine Milano ha aperto le porte a Starbucks.
Dal primo negozio aperto a Seattle nel 1971, la multinazionale americana non si è fermata: 28.720 stabilimenti in 78 paesi, (12.000 dei quali solo negli Stati Uniti), nel 2012 l’arrivo in Europa.
Come tutte le aziende che oggi si trovano ad operare in un mercato fortemente competitivo, Starbucks ha modificato il proprio modello di business, valorizzando la cosiddetta “Third Wave Coffee”.
Al B2C (Business to Consumer) ha infatti affiancato una customer experience d’impatto attraverso la creazione di Reserve Roastery.
Cosa sono le Reserve Roastery? Niente di più che torrefazioni in cui vivere un’esperienza multisensoriale che permette di percorrere tutto l’iter che porta il chicco di caffè dalla pianta alla tazzina.
Non a caso è proprio una Reserve Roastery quella che ha aperto a Milano, ufficialmente il primo Starbucks presente in Italia.
Il locale si trova in piazza Cordusio, (un tempo centro finanziario di Milano): l’edificio in cui sorge la caffetteria ospitava le poste e prima di esse la Borsa Valori di piazza Cordusio.
Ai tradizionali prodotti americani, l’azienda ha affiancato un’offerta tutta italiana dove primeggiano il cappuccino, l’espresso e le torte firmate dalla milanese Princi.
A far discutere i prezzi: circa l’80% in più alla media milanese come riportato dall’Unione Consumatori.
Il Codacons ha presentato un esposto, chiedendo all’Antitrust di verificare “la correttezza della pratica commerciale” posta in essere dall’azienda.
Un investimento da più di 20 milioni di euro, 300 posti di lavoro creati e un preciso piano di penetrazione del mercato con la promessa di apertura di altri store a Milano e in Italia: alcuni numeri, i più significativi…
Troppo spesso ci si è chiesti perché un progetto come Starbucks fosse americano e non italiano e perché quindi noi italiani dovessimo accontentarci…il dibattito richiederebbe molto tempo e forse sarebbe difficile arrivare ad una conclusione soddisfacente, tuttavia credo non sia possibile evitare un confronto e interrogarsi ancora una volta quindi sulla reale natura imprenditoriale del nostro paese, spesso e volentieri troppo piccola o troppo condizionata dai propri complessi di inferiorità.