L’isola delle tartarughe

Lampedusa è l’isola di tutti. È l’isola di chi crede fermamente che questo mondo può cambiare; è l’isola di chi ha fatto di un pezzo d’Africa la propria casa; è l’isola dove ti svegli ogni giorno con la granita di gelso e il cornetto al pistacchio. E poi è l’isola delle tartarughe, delle stelle, degli aperitivi fronte mare, dell’acqua cristallina, delle passeggiate in via Roma e del buon pesce.
Tutto questo chi scrive lo ha riscontrato personalmente grazie ad un’illuminate esperienza di volontariato estivo con Legambiente nell’ambito del progetto a tutela dei nidi della tartaruga Caretta Caretta.
Sessanta giorni circa di gestazione in una camera di incubazione naturale sotto sabbia e da un singolo nido possono uscire dalle 90 alle 150 tartarughine il cui primo istinto una volta risalite in superficie è quello di correre verso l’acqua.
Il loro sesso verrà determinato dalla temperatura interna al nido: >26° C femmine, 24<26° C maschi.

Al di fuori di queste oscillazioni termiche le uova non sono vitali. È inoltre necessario che il nido non venga scoperto o entri a contatto con radici di pianta. Ciò potrebbe comportare infezioni e abbattimenti di temperatura tali da compromettere l’intera nidiata.

Nonostante le mille accortezze che i volontari possono apprestarsi a porre a tutela dei nidi tra recinzioni, appostamenti e spostamenti d’urgenza, tuttavia, le possibilità di piena riuscita del processo di tutela non sono mai ovvie: non è infatti possibile stabilire con certezza quanti di questi cuccioli raggiungano effettivamente l’età adulta.

Certo è che la loro tutela, insieme a quella dell’ecosistema che le ospita, sta diventando un interesse preminente della società.
Ne sono la dimostrazione vivente il personale della riserva dell’Isola dei Conigli e quello del Centro di recupero dell’isola di Lampedusa che si dedicano giornalmente a questi rettili seppure su fronti diversi.

I primi presidiandone le zone di nidificazione e i secondi curando materialmente le tartarughe ferite che vengono loro portate da turisti e pescatori.

La parte più toccante della mia esperienza probabilmente è stata proprio questa; visitare il centro e vedere almeno una dozzina di tartarughe di ogni taglia ricoverate lì per un problema orribilmente comune: ami da pesca, lenze e pezzi di plastica bloccati nelle vie respiratorie o nello stomaco.
Questi vengono conservati in apposite bustine raccolte a loro volta in enormi barattoli a monito per i visitatori del centro.
Sapete, mentre ero lì li guardavo e più li guardavo più mi veniva da pensare alla frase «da grandi poteri derivano grandi responsabilità» di Ben Parker in Spiderman.
Ho sempre pensato che essendo noi umani gli esseri con più potere sulla Terra dovremmo essere anche quelli maggiormente responsabili della sua tutela e invece, fondamentalmente, siamo degli egoisti superficiali. Non ci rendiamo conto di quale sia il nostro impatto sul pianeta e sulle altre specie che ci vivono al pari di come non ci rendiamo conto del male che stiamo facendo anche ai nostri simili e a noi stessi con le nostre omissioni. Probabilmente fuorviamo dallo stesso concetto di “responsabilità” che non vuol dire solo pagare per gli errori commessi (sarebbe altrimenti sinonimo della parola “colpa”); vuol dire avere cura di qualcosa, conviverci, autolimitarsi nell’interesse della cosa stessa e non per forza a discapito del progresso. In particolare noi conviviamo con le tartarughe e col resto della fauna marina e terrestre perché abitanti di un pianeta ricchissimo di vita che stiamo impoverendo oltre modo per i nostri fini.
Le tartarughe soprattutto sono seriamente minacciate dall’uomo su più fronti: il turismo nelle aree di riproduzione, la pesca, l’inquinamento marino…. Si stima che ogni anno circa 150mila tartarughe marine finiscano catturate negli attrezzi da pesca nel Mediterraneo e che di queste oltre 40.000 muoiano istantaneamente o successivamente per le ferite riportate.
I famosi ami da pesca di cui parlavo prima spesso vengono ingoiati dalle tartarughe proprio perché per un pescatore è più facile tagliare una lenza che immobilizzare una tartaruga che ha mangiato la sua esca.
Non è esente dal creare problemi nemmeno l’inquinamento luminoso: basti pensare a come – anche recentemente – siano morti 30 cuccioli di tartaruga in Puglia perché deviati dalla luce dei lampioni prospicenti la spiaggia verso la strada, dove le auto le hanno poi schiacciate.
In tal senso l’isola dei conigli a Lampedusa costituisce un’oasi felice: istituita nel 1996 coi suoi 320 ettari di estensione e 800 m di scalinate per poterla raggiungere (immaginate la mia gioia nel farmela alle due di pomeriggio in salita sotto il sole per il cambio turno) questa riserva ospita una delle spiagge considerate fra le più belle del mondo dove la tartaruga Caretta Caretta generalmente viene a nidificare. Qui l’acqua è cristallina e i pesci nuotano in branchi enormi arrivando quasi fino a riva. Non è raro vederli aggirarsi persino fra le gambe dei bagnanti. Attenzione però, è severamente vietato dare loro da mangiare! Un’altra regola importante è quella di non tentare di arrampicarsi sull’Isolotto dei Conigli che sorge proprio al centro della baia e che è collegato alla costa da un breve istmo di terra.

Qui infatti nidifica il gabbiano reale e vive una specie di lucertola striata unica in tutto il Mediterraneo, la Psammodromus Algirus.

La trovate solo su quest’isoletta e in Algeria. Di conigli invece nemmeno l’ombra.

Il nome della baia infatti non trae origine da questi roditori (che vi sono ma non sono l’animale predominante) ma da un errore di trascrizione delle prime cartine geografiche nel 1824 che la delineavano. Quello che infatti in arabo era “Rabat” (“collegamento, legame” in riferimento all’istmo di terra di cui parlavo prima) è stato poi trascritto dagli Inglesi come “Rabit” e quindi “Rabbit” (“coniglio”). Ecco dunque la “Rabbit Island”, l’Isola dei Conigli.
I campi di volontariato si svolgono qui. Ai volontari è richiesto di contribuire alla tutela della spiaggia e di sorvegliare e proteggere i nidi di Caretta Caretta; due attività all’apparenza semplici che comportano però anche delle skills aggiuntive: molta diplomazia coi turisti, tanta pazienza, buona atleticità e soprattutto un’ottima capacità d’adattamento.
Mi sono dovuta alzare alle 6 di mattina, ho dovuto camminare ore e ore sulla spiaggia, nuotare, pagaiare, dormire in tenda, parlare con le persone e fare nottate di veglia nella speranza di avvistare una tartaruga e assistere al magico momento della deposizione ma niente, almeno a me è andata male. In compenso ho potuto partecipare alla liberazione di una di loro insieme ai volontari del centro di recupero.
Tornata a casa e ripensando a quei momenti non posso che essere felice nell’aver fatto tutte quelle cose.

L’alba e il tramonto visti dalla panoramica dell’isola dei Conigli sono spettacoli emozionanti quanto il vedere una tartaruga che sparisce libera fra le onde.
È una sensazione strana in realtà. Al senso di ammirazione e di stupore che ho provato in quei momenti si accompagnava un senso di inquietudine dovuto alla consapevolezza che per quanto però quei tramonti e quelle tartarughe fossero belli da vedere essi costituivano parte di un ecosistema che va protetto ben oltre quanto non si stia già facendo.
È un bene che esista Legambiente, è un bene che esistano le associazioni ambientaliste e le persone che ne fanno parte che decidono di passare così le loro vacanze ma mi chiedo fino a che punto costoro possano recuperare davvero le omissioni di una moltitudine di persone ben più ampia di loro.
Basta un secondo ad uomo per gettare un involucro di plastica per terra, uno al vento per portarlo in spiaggia, uno alla marea per portarlo al largo, uno ad una tartaruga per vederlo, scambiarlo per una medusa e mangiarlo. Servono invece intere squadre di volontari per ripulire una singola spiaggia e un’equipe veterinaria di almeno 3 persone per operare una singola tartaruga.
Per l’ennesimo volta parte tutto dal singolo. Un circolo vizioso che trae origine da una persona sola il cui singolo gesto si somma al singolo gesto di altri come lui fino a creare danni devastanti all’ambiente e alle specie animali.
Mi vergogno tantissimo come umana perché si tratta di vite che muoiono per atteggiamenti umani che si potevano facilmente evitare e che ci rendono tutti colpevoli. Non sempre le tragedie si possono evitare ma la prevenzione – quale esternazione del nostro senso di responsabilità verso gli altri – può far sì che accadano poche volte e con conseguenze controllate.
Questo è un principio che nell’ambito del diritto ambientale viene definito come “principio di precauzione”: sostanzialmente «prevenire è meglio che curare» che a sua volta si rifà ad un concetto che in diritto è ancora più generalizzato, quello per cui le omissioni si pagano allo stesso modo delle azioni.
Le pago io che pecco e poi devo chiedere scusa, le paga l’ingegnere che progetta una casa che poi crolla, le paga nel tempo anche il turista che getta una cicca sulla spiaggia e poi prova dispiacere nel vedere una tartaruga morta in un centro di recupero a causa di altri irresponsabili come lui che hanno fatto lo stesso.
Una semplice presa di consapevolezza di ogni singolo sul pianeta e metà delle nostre risorse e nel nostro tempo verrebbero risparmiate. Al pari metà delle specie animali e vegetali che oggi sono a rischio non lo sarebbero più.

Il problema è che noi siamo umani. E per questo sbagliamo. Lo capiamo sempre dopo averlo fatto. Ed è così che impariamo. Il che non funge da giustificazione suprema di ogni nostro errore ma di certo ci dà la possibilità di autoimporci un monito per le azioni future. Una volta imparato dovremmo infatti prevenire che lo stesso errore si ripeta. Qualunque sia l’ambito. Tartarughe o meno.