La mente crea, la mente distrugge…

La mente crea, la mente distrugge…

Gran parte del pensiero filosofico buddista si fonda su questo assunto: tutto ciò che siamo è appunto il risultato di una serie di decisioni.

La mente è quindi l’origine di tutto e solo essa (anche quando non sembra) è in grado di azionare quei processi (spesso inevitabili) che cambiano il mondo.

Poco più di una settimana fa, in qualità di responsabile commerciale di Quolit, mi è capitato di conoscere una realtà imprenditoriale storica che si sta lasciando fallire fondamentalmente proprio a causa di un cattivo approccio mentale nei confronti del mercato.

Per evidenti ragioni di riservatezza non citerò il nome dell’azienda, mi limiterò per cui esclusivamente ad indicare il settore di riferimento e l’area geografica dove sono stato.

L’azienda di cui scrivo è un’azienda storica dell’Abruzzo attiva nel settore tessile dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, i prodotti di questa attività hanno viaggiato il tempo e lo spazio e sono entrati di diritto nella tradizione della regione. Tuttavia, per una serie di regioni, questa azienda, come ho già avuto occasione di precisare, sta chiudendo.

Quando ho saputo di questo caso non ho esitato un solo istante a prendere contatti con la direzione per proporre un nuovo progetto che potesse in qualche modo cercare di aiutare l’attività a presentarsi al di fuori della regione; il feedback ricevuto mi ha incoraggiato e mi ha spinto quindi a partire per raggiungere la sede storica situata, appunto, nel cuore dell’Abruzzo, non molto lontano da Roccaraso.

Purtroppo, nonostante l’interesse iniziale dimostratami inizialmente da parte della direzione non è stato possibile concludere la trattativa di fatto a causa di un ripensamento dell’ultimo momento: prima ancora che fossi avvisato la direzione aveva deciso di gettare la spugna definitivamente.

Non ho fatto un viaggio invano perché, oltre a passare una bellissima giornata in Abruzzo con due cari amici che mi hanno accompagnato, ho avuto occasione di comprendere ancora una volta il valore fondamentale di tre valori imprescindibili per un’azienda: l’investimento in ricerca e sviluppo, la diversificazione del prodotto e il networking.

Nonostante il dispiacere nel vedere un’azienda storica in piedi dal 1850 chiudere non posso esimermi dall’osservare quanto l’assenza degli elementi sopra indicati abbia nei decenni portato un piccolo “gioiello” a chiudere.

La verità, alla luce di una serie di scoperte fatte durante la visita, è che nessun imprenditore locale ha mai avuto interesse a valorizzare un prodotto unico e così si è preferito invece godere di profitti più facili che negli anni d’oro a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 si potevano generare attraverso altre attività molto meno rischiose legate per diverse ragioni al settore pubblico.

Non approfondisco qui perché non vi è ragione di descrivere dettagli oggettivamente poco interessanti, il punto è un altro: molte imprese dal valore elevato sono state abbandonate a causa di un disinteresse congenito a molti pseudo imprenditori nostrani piuttosto che investire e battersi sui mercati internazionali hanno preferito chiudersi nel loro fortino, aspettare clienti e ovviamente, quando si poteva, sovvenzioni.

Scriveva Luigi Einaudi: “…Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli.

È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di denaro.

Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, abbellire le sedi, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno.

Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritrarre spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente con altri impieghi”

Non mi stancherò mai di ripetere che è quello spirito che manca spesso a chi vuole generare ricchezza in Italia e la sua assenza, non subito, ma gradualmente, genera silenzio e vuoto.

Non è stata la globalizzazione in quanto tale ad aver indebolito parte del tessuto socio-economico del paese, è stata l’impreparazione di quella stessa parte a indebolire la sua ossatura e a contribuire quindi al suo ritardo cronico nei confronti di sfide difficili e non più rimandabili.