Quello che non vogliamo dirci a Natale
Tutte le volte in cui mi è capitato di confrontarmi con chi mi suggeriva di “pensare meno per vivere meglio” non ho potuto fare a meno di mettere in discussione ciò che sono: un uomo che crede di poter affrontare la vita grazie al pensiero.
Nonostante i miei buoni propositi, nonostante cioè il mio impegno nel tentare di mettere in discussione le mie convinzioni, qualcosa ha continuato tuttavia a suggerirmi che affrontare la vita grazie alla forza di una buona riflessione in un tempo che predilige “le decisioni di pancia” sia un gesto non solo opportuno ma di fatto anticonformista.
In altre parole, dopo essermi domandato se pensare sia un’azione di fatto più o meno salutare sono giunto alla conclusione che per tentare di vivere meglio non bisogna “pensare meno” ma pensare meglio.
Di conseguenza, la decisione di continuare a “pensare meglio”, per me, significa in primo luogo dire “no” alla rassegnazione, ossia “dire no” a un Grande Fratello che riduce l’individuo a un mero consumatore che agisce di istinto e che si lascia trascinare dalle abitudini come una boa alla deriva.
Non di meno, nei giorni che precedono Natale non posso non chiedermi che senso abbia, ormai, fingere che questa ricorrenza sia importante.
Da tempo, ormai, osservo infatti nella maggioranza delle persone un’apatia preoccupante la quale, forse non a caso, raggiunge proprio l’acme nei giorni che precedono una festa.
La “Christmas fatigue”, cioè quella sensazione di agitazione che pervade il cuore delle persone poco prima di Natale quando scoprono che (forse) non potranno evitare cene aziendali, cene tra parenti, aperitivi, regali e saluti di circostanza che vorrebbero volentieri evitare che cos’è, di fatto, se non la prova dell’esistenza di qualcosa che non va intorno a noi?
Come ogni anno, la frenesia quasi incontenibile che sembra accendere gli animi dei più non può non suscitare una riflessione a proposito di ciò che questa in effetti è a prescindere dalle apparenze: una gara a riempire il proprio tempo e ad evitare, in tutti i modi, di affrontare l’idea che ci sia appunto qualcosa di sbagliato nel mondo in cui viviamo.
Certo, non sempre si può di fatto dire “no”, è vero ma a chi giova fare ciò che non va di fare in un tempo che ormai ha svuotato ogni cosa di significato? Nel momento in cui rinunciamo alla spontaneità perché “il tempo non basta” e ci riduciamo addirittura a calcolare quanto tempo dedicare a una semplice chiacchierata possiamo infatti continuare a ricordarci come esseri umani?
A conti fatti, dicembre non sembra quindi un mese di “passaggio” quanto il mese in cui la superficialità che ormai definisce il nostro oggi raggiunge il culmine: un punto di non ritorno destinato tuttavia a ripetersi forse perché non solo pensiamo che ci serva tutto e subito ma anche perché abbiamo preferito non dare più concretezza alle cose (e alle relazioni) in quanto tali.
Pur avendo ricevuto i sacramenti non posso definirmi pienamente cattolico perché, come già spiegato altrove, non riesco a vivere la fede altrui e a circoscrivere la stessa tra i confini di un’istituzione come la Chiesa.
Malgrado ciò, in un tempo nel quale non è solo la superficialità a vincere ma anche la contraddizione e la convinzione che non possa esistere un legame tra cose solo in apparenza distanti non riesco quindi a credere che il Natale possa ridursi a una corsa ai regali.
Il fatto che le feste di Natale siano, come osservato, il culmine di una celebrazione del Nulla che non cessa in nessuna stagione dell’anno mi costringe perciò a una riflessione urgente, una riflessione che al termine del 2025 trova senso in una dimensione ulteriore dove i confini dei singoli punti di partenza finalmente si uniscono in modo coerente.
A prescindere fatto che abbia o meno ricevuto le stimmate, (fatto che merita un approfondimento a parte) la figura di San Pio da Pietrelcina mi ha infatti suggerito, di recente, una riflessione che da tempo sentivo di dover affrontare.
Pur essendo in effetti difficile discutere della figura di un santo perché inevitabilmente ci costringe a fare i conti con la fede non credo sia possibile ignorare nel caso di specie quale impatto abbia avuto la sua storia nella vita di tante persone. Non di meno, pur ribadendo quanto sia difficile discutere di un uomo che si presume abbia compiuto dei miracoli, credo non sia possibile in questo senso non interrogarsi sul rapporto tra credenti e atei così come non sia possibile non interrogarsi sul valore di una frase che pronunciò Monsignor Andrea D’Agostino a proposito appunto del frate di San Giovanni rotondo, ossia “Il Medioevo è finito da un pezzo, e voi credete ancora a queste panzane?”.
Se San Pio da Pietrelcina abbia o meno ricevuto le stimmate io non lo so ma il dibattito che ho osservato tra atei e credenti quando ho approfondito la sua figura mi ha confermato quanto sia importante, oggi più che mai, cercare una qualche forma di mediazione tra coloro che non credono e pretendono di delegittimare chi crede e chi crede e basta.
In parole diverse, in un momento nel quale tutto sembra aver perso un significato perché, mi domando, chi non crede deve per forza confermare la sua legittima posizione di ateo (o agnostico) delegittimando chi ha (probabilmente) compiuto una scelta diversa?
Forse, San Pio da Pietrelcina non è il santo che conosciamo ma se fosse stato solo qualcosa di medioevale, per citare, Monsignor Andrea D’Agostino, cosa dovremmo pensare dei predicatori del Medioevo? Cosa dovremmo pensare della Chiesa la cui autorevolezza è tale in virtù proprio della fede? Dovremmo forse pensare che Dio si è dimenticato degli esseri umani? O dovremmo probabilmente pensare che millenni di preghiere siano stati un inganno? Se così fosse, cosa ci impedirebbe allora di credere che lo stesso San Francesco sia stato un impostore?
La questione, si badi bene, non mi vede in questo contesto impegnato a difendere la fede perché questa è qualcosa che appartiene all’intimo dell’essere umano quanto piuttosto a tentare di trovare una mediazione in un contesto che la mediazione la rifiuta.
Se tutto ciò che è stato è stato perciò un inganno che senso ha, allora, il Natale? E che senso ha prepararsi a celebrare San Francesco nel 2026?
Se la fede sia o meno un dono questo non lo so e non pretendo di saperlo ma non credo che chi non abbia fede non abbia motivo di interrogarsi sulle cose (così come credo che chi abbia fede non abbia motivo di non pensare che non possano esserci risposte tra i contorni del dubbio).
Sì, la nostra è una società che ha sempre meno fede e questo fatto non può dunque non invitarci a provare ad affrontare una riflessione che prima o poi dovremmo affrontare: in cosa può avere fede chi non ne ha?
La verità è che molte delle persone che si preparano ad affrontare il Natale in questi giorni non sono atee o agnostiche ma sono semplicemente persone che non vogliono più pensare.
A questo punto, sarebbe pacifico limitarsi a riconoscere la fede come un fenomeno di parte ma questo non ci aiuterebbe a comprendere, probabilmente, chi, credente o meno che sia, nella vita di tutti i giorni sceglie appunto di non pensare più.
La religione e quindi le feste che celebriamo di conseguenza sono un’occasione anche per molti atei, infatti, per riflettere su tematiche che pur avendo origine nell’alveo della fede hanno rilevanza sul piano dell’esistenza in termini laici. Ciò che tuttavia è possibile per chi ha provato a trovare un senso alle cose non è però più vero per i più, cioè proprio per coloro che si sono adeguati alle circostanze.
Indipendentemente dal tema del fanatismo che, come ripetuto, purtroppo può pervadere sia il credente che il non credente, il riflesso nel quale oggi siamo obbligati a guardarci non contempla un confronto ma un atteggiamento anestetizzato.
Oggi, tra di noi, non siamo più capaci di scambiarci possibili certezze ma segnali, “vibrazioni”, presenze alternate: insomma quanto basta per convincerci che davanti all’aperitivo “ci siamo” ma mai abbastanza per impegnarci a restare davvero.
Le relazioni che viviamo, di conseguenza, non iniziano, non finiscono né si trasformano o tanto meno ci guariscono, restano sospese, vuote e ci fanno male anche se facciamo di tutto per non ammetterlo.
La nostra generale convinzione che accontentarsi basti, la nostra sempre più dilaniante convinzione per cui questo sia “meglio di niente” che cos’è, però, se non il riflesso di un atteggiamento consumistico dove non ci vogliamo scoprire ma al contrario ci vogliamo “noleggiare”?
In qualche maniera siamo dunque (quasi) tutti alla portata di mano di tutti, siamo (quasi) tutti pronti ad “impegnarci” per fare fronte all’esigenza degli altri di riempire i loro vuoti ma allo stesso momento siamo altresì (quasi) tutti pronti ad andare via quando si supera un certo confine perché il vero impegno, si sa, è costoso e noi siamo alla fine (quasi) tutti più poveri.
Forse, non siamo davvero più capaci di amare e a prescindere da ciò in cui ci identifichiamo la maggior parte di noi si innamora dell’attenzione che riceve (finché conviene).
Per quanto paradossale sia, tutti siamo più soli ma tutti (o quasi) continuiamo a trattare le relazioni umane come alternative. Sì, parliamo tanto ma solo quando ci serve per distrarci e quando qualcosa si rompe ci limitiamo a continuare ad usarci finché non arriverà “qualcosa di meglio”.
Il problema, quindi, non dipende solo dal fatto che nessuno non voglia più prendersi un impegno ma anche dall’incapacità dei più di voler scegliere in piena autonomia.
L’assenza di educazione emotiva, sensibilità, empatia e sì, capacità di pensare (anche sé stessi) ha svuotato le nostre personalità, ci ha resi vulnerabili e pronti ad essere riempiti dalle convinzioni di parte, dalle pretese di certe autorità per cui l’identificazione in una realtà è assoluta, dogmatica e, inevitabilmente, univoca.
Ogni discussione è in conclusione un contrasto tra presunte verità e oltre la polvere che gli scontri tra uomini e donne, destra e sinistra, credenti e atei solleva non siamo più capaci di trovare uno spazio dove conciliare gli opposti, di gestire un confronto e riscoprirci tutti più soli, nei fatti, di quanto ci illudiamo di essere.
Ognuno di noi ha una convinzione ma se ogni momento del nostro tempo viene dedicato al rifiuto dell’altro, a priori, perché non sappiamo scegliere, cosa rimarrà del nostro essere quando non potremo più fare a meno di Chat GPT?
Non credo, in buona sostanza, vi sia contraddizione nel riconoscere che non sia stato l’individualismo in quanto tale a spezzare il senso dei rapporti umani quanto, al contrario, la delegittimazione del valore che hanno il pensiero del singolo e il suo valore nel contesto della società.
L’idea per cui il singolo individuo possa fare a meno di ciò che ha intorno è, infatti, una contraddizione in termini di ciò che realmente è l’individuo e quindi un tentativo ben riuscito di svuotarne l’essenza affinché possa essere meglio (ri)definito nella sua nuova dimensione solitaria.
Un tempo, il mito era un riferimento collettivo ma oggi quale riferimento può far suo un individuo che ha rinunciato? Un mito fittizio privo di valore che trova esplicazione forse in un meme?
Come ribadito, chi ugualmente non crede può trovare a mio avviso motivo di riflessione nelle festività che nascono con un carattere religioso ma chi senza rendersene conto si è ritrovato a temere profondamente l’idea di pensare cosa può sperimentare, allora, tra un impegno e un altro? Può davvero trovare un’alternativa credibile all’invisibile per quanto asfissiante idea per cui oggi tutto può avere un prezzo ma non necessariamente un valore?
