E allora uccidiamo il pensiero!

Pochi giorni fa sono stato protagonista di un episodio che mi ha nuovamente costretto a fare i conti con il valore che continuiamo ad attribuire al pensiero critico.

Nel caso di specie, mi sono confrontato con una realtà editoriale che ha giustificato la decisione di non pubblicare due contributi dedicati all’Intelligenza Artificiale e al crescente uso di parole inglesi in Italia trincerandosi dietro alla presunzione per cui ormai, il pubblico, non ha più interesse per ciò che pensa un autore.

Ora, pur rispettando naturalmente la linea editoriale in oggetto e pur riconoscendo il valore modesto delle mie opinioni rispetto a quello di personalità ben più autorevoli in campi come quello dell’Intelligenza Artificiale e della linguistica non posso tuttavia esimermi da quella che ritengo già ora essere una valutazione critica della posizione con cui mi sono confrontato.

Prescindendo infatti dai contenuti delle proposte in oggetto (contenuti sviluppati in ogni caso sulla base di una bibliografia ben documentata) e prescindendo dalla rispettabile decisione di condividere esclusivamente proposte elaborate sulla base di un’eventuale intervista, la convinzione per cui i pensieri non interessino più ai lettori temo sia da approfondire.

In effetti, se accettiamo l’idea per cui la condivisione di opinioni (ben supportate da determinati studi) possa essere “noiosa” non possiamo inevitabilmente chiederci quale sia di conseguenza l’origine delle opinioni che siamo costretti a “digerire” ogni giorno.

Tra il presupposto per cui non può esserci spazio per una nuova opinione (presupposto che già ai tempi del liceo criticai ogni qual volta si scoraggiava la condivisione di un’opinione nei temi) e quel responsabile amministrativo che a suo tempo mi scrisse che l’università “produceva” laureati credo esista infatti una preoccupante terra di nessuno non diversa da Mordor: una terra arida e cupa nella quale, malgrado le apparenze, il mercato più prospero è quello delle opinioni già belle e pronte.

Certo, io non posso pretendere che la mia opinione sia definitiva ma se è vero che la difesa e la promozione di un’opinione sono azioni meritevoli di quei princìpi di partecipazione che pretendiamo di valorizzare perché rifiutiamo a prescindere ciò che è terzo? Ciò che in altre parole diverge da quella dicotomia che pretende di semplificare ogni problema e di ridurre quindi il dibattito ad un mero confronto tra due parti già definite?

In un contesto quindi nel quale sono le multinazionali a decidere spesso e volentieri le sorti di questioni delicate come ad esempio il commercio internazionale e l’Intelligenza Artificiale, domandarsi nuovamente quali siano gli attuali presupposti di quelle democrazie che vorremmo addirittura difendere con le armi credo sia ormai più che opportuno.

Allo stesso modo, domandarsi quale realtà si intenda definire in un tempo nel quale si abusa di parole come “inclusività”, “patriarcato” e “resilienza” senza rendersi pienamente conto di ciò che queste significano (o potrebbero significare) credo non sia di per sé un atteggiamento critico a quello che in teoria si vorrebbe valorizzare in alcune circostanze ma, al contrario, un atteggiamento “diverso” il quale, non a caso, trova senso proprio nell’intenzione di ricostituire un legame tra parola e pensiero autonomo; (nondimeno, credo che un impegno crescente da parte dei singoli per una più attenta valorizzazione del legame tra pensiero (autonomo) e parola possa essere anche l’inizio di un percorso nel quale gli individui possono finalmente riscoprirsi capaci di vivere le relazioni in modo sereno, spontaneo e scevro da tutti quegli stereotipi che non a caso spesso e volentieri sono strumentalizzati proprio per assecondare un contrasto tra le parti).

In conclusione, malgrado le mie buone intenzioni non mi è possibile trascurare la necessità di tentare ogni modo di valorizzare il pensiero individuale quando questo è supportato da considerazioni ragionevoli e attendibili. Come già ribadito, in un momento di fatto nel quale il rischio di subire le peggiori dinamiche del nostro tempo come incoerenza tra parole e azioni e subalternità della partecipazione democratica a un potere economico non eletto credo che scegliere di prendersi un momento per tornare a riempire di concretezza i pensieri e perciò le parole sia un atto di elevato valore civile: un atto che, per citare Hannah Arendt, combatte proprio quella passività che nega il pensiero quando emerge un fenomeno totalitario.

P.S. A scanso di equivoci, è certamente vero che la singola decisione di promuovere un contenuto piuttosto che un altro non è una scelta di per sé sintomatica di una realtà totalitaria ma come ribadito, trascurare la sempre più pervasiva convinzione per cui il pensiero del singolo sia superfluo o, peggio, inutile (a prescindere) è certamente un fenomeno che occorre considerare con quella stessa ragionevolezza con cui in teoria si pretende di comprendere il ruolo appunto della democrazia nel XXI secolo.