Settembre, andiamo.

“Settembre, andiamo. È tempo di migrare.” Così cominciava I Pastori di Gabriele D’Annunzio, una poesia che i primi giorni di settembre promette tutt’ora un nuovo inizio, sebbene ogni anno il futuro sia sempre più incerto.

Di fronte, infatti, ai recenti accadimenti che stanno interessando paesi come il Nepal, la Francia o gli stessi Stati Uniti d’America come dovremmo reagire? E come dovremmo reagire di fronte alla tensione crescente e sinceramente a volte incomprensibile tra potenze diverse ma pur tuttavia simili per molti aspetti?

Certo, ogni avvenimento che accade intorno a noi si potrebbe spiegare in virtù di qualcosa di non immediatamente evidente ma dal momento che è al contrario con l’evidenza e con ciò che si può subito dimostrare che occorre cominciare ogni riflessione che si rispetti di quella che molti hanno già chiamato “la rivoluzione della Gen Z” in Nepal si può quindi immediatamente riconoscere una cosa molto interessante: la volontà da parte del popolo di scrivere la parola “basta” in calce a un’epoca.

Nondimeno, la stessa reazione del popolo francese nei confronti del tentativo di Emmanuel Macron di salvare il salvabile della sua presidenza non può che essere osservata come una reazione naturale nei confronti di chi, nei fatti, dimentica che un cittadino non è un suddito.

Di conseguenza, possiamo guardare al Nepal e alla Francia come alla dimostrazione appunto evidente che la storia non perdona quei leader politici, i quali trascurano l’esigenza da parte dei cittadini di avere prima di ogni cosa una voce? Credo di sì e credo, se tanto mi dà tanto che questo significa che presto anche altri popoli potrebbero scegliere la strada dell’insurrezione più o meno violenta.

È opinione diffusa, infatti, che da tempo si sia sensibilmente acuita una frattura tra i leader e i loro popoli, (soprattutto in Occidente), perciò credo che sebbene non sia mai auspicabile la via che trascina le persone verso la violenza sia quanto meno opportuno chiedersi se qualcuno saprà o meno rispondere prima che sia troppo tardi alla necessità dei cittadini di avere risposte precise in merito a problemi come la guerra, l’inflazione, la disoccupazione e una più pervasiva sensazione di inadeguatezza.

La verità è che dei princìpi di cui è teoricamente imbevuta la nostra epoca, (princìpi elaborati e confermati grazie al pensiero liberale e grazie alla Rivoluzione americana e alla Rivoluzione francese) è rimasto ben poco nei fatti e, al contrario, molti dei presupposti che ispirarono i cambiamenti appena ricordati sono nuovamente tornati ad agitare le coscienze dei più.

Nel caso di specie, sebbene le idee che ispirarono gli eventi appena citati siano senza dubbio idee che meritano ampie discussioni (come gli eventi che ispirarono meritano a loro volta anche delle critiche) non è più possibile ignorare il fatto che gran parte dei fondamentali per cui ci si battette per valutare il ruolo del cittadino nella Res publica siano di fatto stati sviliti.

Se è dunque vero che rivoluzioni come quella americana e francese furono prevalentemente ispirate da quella borghesia mercantile che pretendeva di avere voce in capitolo nelle decisioni che altri prendevano per lei non è forse possibile immaginare che le nuove generazioni possano prima o poi avvertire l’esigenza di cominciare ad avere un ruolo che nuove forme di aristocrazia sembrano aver loro negato?

Non sembra essere più possibile prescindere, purtroppo, dalla logica per cui non importano le predisposizioni naturali giacché importa solo acquisire competenze da sfruttare per assicurarsi una nicchia nel mercato; allo stesso modo, dal momento che ormai abbiano accettato il fatto che i conflitti umani sono “opportunità di business” e la sofferenza una mera fonte di profitto perché qualcuno non potrebbe prima o poi riconoscere l’eventualità di proporre in termini diversi una nuova rivoluzione? Una rivoluzione capace di restituire all’individuo, (come già ricordato), un ruolo centrale all’interno delle società di cui è parte?

La verità è che ogni forma di decostruzione del principio di appartenenza a qualcosa altro non è che il tentativo di convincere l’io della sua tossicità; non di meno, il costante tentativo di stampare etichette per riprogrammare lo stesso altro non è che un modo per appunto ri-programmarlo di conseguenza in una logica di non-pensiero.

Di conseguenza, sperando che a prescindere dal non visto possa esserci di più, fino a quando all’interno di piccoli gruppi non avranno luogo degli autentici processi di risveglio delle singole individualità ben poco sarà possibile contro un tempo ormai irrecuperabile.

In conclusione, se alle domanda “cosa rimane di quei princìpi che hanno ispirato il nostro tempo?” e “cosa rimane del cittadino se questo, ovunque noi volgiamo lo sguardo, comincia a riconoscere di non essere più tale bensì un suddito?” non riusciamo più a trovare risposte convincenti forse le apparenze che ci illudono che tutto sommato “ogni cosa sia a suo posto” cominciano a scricchiolare e forse questo significa che dobbiamo imparare qualcosa di nuovo prima che sia tardi, qualcosa come un pensiero critico capace di superare l’opposizione con ciò che sembra diverso, qualcosa che, in altre parole, ci dimostri possibile che la storia non necessariamente debba ripetersi ma che da essa possiamo imparare grazie alla ragione.

Malgrado tutto, malgrado quindi il timore della solitudine e l’apatia, suppongo che una speranza rimanga e che questa speranza non escludo possa trovare senso proprio in quel movimento naturale che prima o poi ispira chi ha molte competenze ma poco spazio di manovra a tentare soluzioni anche a malincuore…