La guerra del Peloponneso: una lezione dimenticata…
Nell’introduzione del breve saggio che pubblicai ormai un anno fa, Roma e i suoi re: una storia che (non) conosciamo, (Editrice La Mandragora), ebbi modo di chiarire i dettagli di una presentazione che organizzai nel novembre del 2021e, nello specifico, precisai quanto fosse importante studiare la storia (non di meno, anche la storia antica) affinché fosse possibile tentare di comprendere i particolari del presente in cui viviamo.
Per quanto strano possa sembrare tutt’ora, in effetti, gli stessi fatti che hanno avuto luogo più di duemila anni fa in quei contesti in cui sono progredite la civiltà romana o greca sono fatti che hanno determinato la nostra cultura e, non da ultimo, sono fatti grazie ai quali ribadisco è possibile probabilmente riflettere con maggiore criticità a proposito di ciò che viviamo.
La stessa guerra del Peloponneso, per quanto possa sembrare distante dalla quotidianità in cui siamo immersi è, come appunto ribadii nel libro che scrissi, un episodio significativo nella storia dell’Occidente giacché essa non solo decretò la fine dell’egemonia di Atene ma poiché a pensarci bene molto di ciò che avvenne negli anni in cui ebbe luogo è qualcosa che in qualche misura potrebbe ispirare in noi ben più di un parallelismo storico.
La guerra del Peloponneso, che durò dal 431 al 404 a.C. fu un conflitto tra le città-stato greche di Atene e Sparta ma, in modo particolare, fu prima di ogni cosa il conflitto tra una città, Sparta, la quale vantava il predominio territoriale dell’attuale Grecia continentale e Atene che, al contrario, deteneva il predominio marittimo dei mari relativi.
Le motivazioni del conflitto furono molteplici e sebbene sia difficile pretendere di comprendere gli stessi con una spiegazione semplicistica è senz’altro possibile ritenere vero il fatto che uno dei motivi principali all’origine del conflitto non fu il cosiddetto “decreto di Megara”, (un decreto che escludeva Megara dai porti e dai mercati ateniesi), né tantomeno la sicurezza di Pericle per cui il decreto appena ricordato non dovesse essere ritirato per assecondare Sparta quanto, in realtà, il timore che la crescita della potenza ateniese suscitasse nella stessa Sparta, (la tesi in esame fu per prima sostenuta da Tucidide e, più successivamente dallo storico John Francis Lazenby nel suo libro The Peloponnesian war).
Più nello specifico, però, la guerra del Peloponneso fu anche il conflitto tra una città nella quale governava un’oligarchia tradizionalista, Sparta e una città che aveva osato sviluppare un innovativo sistema di governo capace di coinvolgere nella gestione della cosa pubblica una buona parte dei cittadini maschi liberi, Atene.
Certo, la democrazia ateniese è un’innovazione politica che non può essere paragonata in termini assoluti alle democrazie nelle quali, in linea teorica, viviamo noi oggi ma dal momento che a suo tempo si rivelò senz’altro una proposta politica innovativa è probabile che non sia un caso il fatto che di recente essa abbia suscitato delle osservazioni che oggi più che mai vale la pena ricordare.
I fatti della guerra in esame sono stati raccontati dal già menzionato Tucidide ne La guerra del Peloponneso ed è proprio grazie a lui che è stato possibile attribuire un nome a quel fenomeno di cui fu vittima in particolare Atene dopo la sconfitta: un fenomeno ribattezzato come “il paradosso di Tucidide” e che vede la potenza sconfitta rinunciare a quel sistema di valori per cui si è battuta per premiare ciò che rappresenta il vincitore, (il quale, forse non per errore, ha vinto).
In altre parole, l’espressione coniata dal politologo americano Graham Allison, “la trappola di Tucidide”, appunto, indica una specifica situazione nella quale i leader di potenze rivali si lasciano trascinare in un vortice di decisioni senza tenere conto delle conseguenze finali finché non si rimane intrappolati in un complesso di reazioni, mosse e contromosse che comportano una guerra di cui nessuno può conoscere l’esito.
Il conseguente declino di Atene dopo la sconfitta e l’insediamento del regime dei Trenta tiranni nella città per volontà della stessa Sparta sono perciò episodi dai quali è possibile apprendere qualcosa? La storia può insegnare come spesso viene ribadito solo se qualcuno è disposto ad apprendere, di conseguenza domandarsi se ci sia o meno qualcosa da imparare dai fatti che ebbero luogo nel quinto secolo a.C. in Grecia è importante.
È certamente vero che non è possibile usare le nostre prospettive mentali per spiegare ciò che è stato ma, la propensione dell’Occidente di tentare ad ogni costo la soluzione del conflitto per difendere una democrazia che esso stesso sovente contraddice non è forse qualcosa di simile (non uguale) all’atteggiamento avuto dagli ateniesi quando prima del conflitto rifiutarono le proposte degli spartani come ricorda Tucidide nel primo libro della già citata Guerra del Peloponneso e si impegnarono a provocare di conseguenza una loro reazione preventiva?
Non diversamente, pur ribadendo che ogni evento storico è unico, non è forse possibile osservare nell’atteggiamento di chi rinuncerebbe volentieri ad alcuni diritti in cambio di un controllo più pervasivo lo stesso atteggiamento di chi ha già perduto una guerra sul piano delle idee?
Un tempo che tutt’ora sembra ogni giorno di più prediligere la tecnica all’attività di analisi è un’epoca, in conclusione, i cui caratteri sembrano destinati a definirsi nell’aridità o, peggio, nella tragedia.
L’incapacità del sistema stesso di contemplare la possibilità che possa esistere un’alternativa capace di superare le logiche binarie a cui si riduce il pensiero è, allo stesso tempo, una nuova prova del sempre più evidente declino culturale al quale ci stiamo condannando.
Perciò, nel riconoscere come ebbe a scrivere Theodor Adorno che “La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta” credo sia opportuno ribadire il fatto che la storia può insegnare solo quando il cittadino acquista consapevolezza del proprio ruolo, rinuncia ai luoghi comuni e alle peggiori semplificazioni e pretende dunque un approfondimento a cui attualmente si rinuncia perché “non si ha tempo”.
Ciò che accadde prima, durante e dopo la guerra del Peloponneso sono fatti che hanno avuto come protagonisti esseri umani non diversi da noi per molti aspetti e non diversamente gli stessi fatti che precedettero lo scoppio della Grande guerra nel 1914 non sono fatti che possono essere ripetuti in modo pedissequo solo nel contesto di una verifica o di un esame dal momento che la loro memoria, esattamente come le idee di cui ipocritamente a volte pretendiamo di essere difensori, sono questioni ben più tangibili di quanto pensiamo.
Le conseguenze economiche di episodi come la guerra in Ucraina o i conflitti in Medioriente hanno dopotutto evidenti conseguenze sulle nostre scelte perciò credere che la loro comprensione possa ridursi ad una decisione non diversa da quella con cui scegliamo quale squadra di calcio sostenere non solo può essere pericoloso ma altresì contradditorio con tutto quello che ogni volta pretendiamo di essere nel confronto con “l’altro”.