L’educazione alla scelta, oltre la “cura Ludovico”…

Poco più di una settimana fa, ormai, nel corso di un evento pubblico che difficilmente dimenticherò, ho avuto l’ardire di confermare una convinzione per me non secondaria: continuare a sottovalutare lo studio delle materie umanistiche a scuola e prediligere dei corsi creati ad hoc per “educare” a qualcosa è sciocco giacché la letteratura, così come la filosofia e la storia, possono già contribuire a combattere un disagio educativo sempre più preoccupante.

Nello specifico, ho creduto in effetti importante ribadire che la letteratura non è mero intrattenimento ma coinvolgimento e strumento di riflessione utile nel percorso di maturazione dell’essere umano e di lotta a tutti quei disagi che oggigiorno, compresa la violenza contro le donne, suscitano giustamente sdegno.

Ora, malgrado sia ormai assodato che non si possa pretendere di affidare concetti complessi a minuti sfuggenti e malgrado sia pacifico riconoscere che i valori di riferimento di una determinata epoca storica non sono gli stessi del nostro tempo, non possiamo tuttavia non riconoscere che i grandi temi della letteratura sono comunque argomenti di formazione validi sia per un essere umano del Ventunesimo secolo che del passato.

Certo, contestualizzare e quindi successivamente sottoporre al vaglio di una critica lucida e oggettiva è importante ma il processo in esame non è esso stesso un processo di maturazione? Non è esso stesso un processo di riflessione tipico di una cultura matura e non soggetta alle tare della faziosità?

In altre parole, è contro le prese di posizione meramente ideologiche o strumentali che l’intelletto deve agire ed è per questo che il valore delle discipline umanistiche si rivelano essere importanti e potenti, oserei.

In un tempo nel quale i salari non aumentano ma i fallimenti di un amministratore delegato dimissionario di una multinazionale non vengono puniti ma premiati con una buona uscita milionaria, urge cominciare una riflessione a proposito delle disparità sociali che spesso non dipendono da un merito effettivo ma da un privilegio ingiustificato che contraddice lo stesso valore semantico (e concettuale, dunque) del termine “merito”, appunto.

In un tempo, inoltre, nel quale ci si affanna a individuare un capro espiatorio in ogni caso e sollecitare con solerzia pregiudizi e infatti divisioni a priori in bande, diventa in definitiva sempre più importante domandarsi “cui prodest”? “Cui prodest” abusare dei princìpi del “divide et impera”?

I tentativi di non raccontare la storia, di non approfondirla, di spiegare i fatti sulla base esclusiva delle proprie paure o sensazioni e i tentativi, infine, di affrontare il tema della violenza raccontando che per combatterla bisogna de-costruire l’uomo non mi convincono e la ragione è presto spiegata: sono tentativi parziali, non chiari.

Ammettere “anche io potrei essere il prossimo femminicida” quando si discute di violenza, (di genere in questo caso), ha davvero senso per l’uomo che ha imparato a conoscersi e a valorizzare la profondità e l’importanza della vita dell’individuo? Ha davvero senso in una società complessa nella quale è opportuno non a caso ricordare che siamo tutti diversi e che generalizzare è fuorviante?

Ripetere frasi come quella ricordata poc’anzi a chi giova, davvero, in effetti? Alle donne o a una società che nell’incoraggiare lo scontro costringe tutti, maschi e femmine, al disagio?

Le categorie a cosa servono se non a utilizzare meglio i dati, nel 2024? Servono ai cittadini o a chi proprio grazie ai dati contribuisce a trasformare gli individui in soggetti utili solo a pochi scopi?

Per meglio comprendere, in conclusione, il tema si può a questo punto riflettere su quale sia il vero “protagonista” del film di Stanley Kubrick “Arancia meccanica”, film del 1972 il cui protagonista non è propriamente Alex, né tantomeno il suo carattere violento o il latte ma il libero arbitrio.

Una volta catturato, Alex, viene costretto a redimere la propria vita con quella che viene considerata una cura rivoluzionaria, la cosiddetta “cura Ludovico” ma la cura in sé non è una vera e propria cura ma un trattamento che impedisce al ragazzo di scegliere se commettere o meno violenza.

La cura in questione, infatti, consiste nel costringere il ragazzo ad assistere controvoglia a scene violente con lo scopo di scatenare in lui una conseguente reazione fisica ogni volta in cui tenti di commettere appunto qualcosa del genere ma la cura in quanto tale (che prima abbiamo ribadito non essere una vera e propria cura), non ha un valore educativo in sé.

In parole diverse ma non per questo (spero) meno efficaci, per evitare che Alex commetta di nuovo degli atti violenti si deprime lo stesso della sua umanità, gli si impedisce di scegliere, di fare uso del libero arbitrio, di abbracciare spontaneamente il bene e di comprendere perciò in autonomia la differenza tra bene e male.

Non a torto, in breve, è possibile temo ritenere che poco si sia compreso del senso del romanzo da cui è tratto il film di Stanley Kubrick e dal suo stesso film poiché oggi stesso, pur di combattere la violenza (in ogni sua forma), non ci impegniamo a combattere la causa della “malattia” e a intervenire sul piano dell’educazione in concreto, (senza delegittimare qualcuno o qualcosa) ma preferiamo intervenire con innovative “cure Ludovico” che attraverso i media creano antagonismi, disagi, paure, modelli deboli e utili alla strumentalizzazioni, “sepolcri imbiancati” costruiti sulla strada della retorica, percorsi da scegliere a prescindere e non con consapevolezza.

Inoltre, non a torto, dal momento che le macerie del mondo in cui vive Alex sono le macerie di generazioni che giudicano aspramente i giovani come lui e che piuttosto che impegnarsi per risolvere alla radice il problema si affidano all’apparenza, alla “cura” che strappa l’umanità dal petto del ragazzo e lo costringe, al politico che sfrutta la sua effettiva debolezza per meri scopi elettorali, è possibile ritenere che anche il nostro tempo incerto debba presto confrontarsi con un contrasto generazionale: un contrasto generazionale che può probabilmente risolversi  nella piena accettazione da parte delle generazioni più giovani del fatto che i cambiamenti non sempre si subiscono e che il mondo non necessariamente si debba spiegare con le stesse parole di chi anche in queste ore guarda delle immagini e pensa che siano la realtà…