Leggere “Ulisse” a trent’anni
Più o meno tutti sappiamo cosa significhi la parola “normale” ma nessuno sa di preciso chi sia legittimato a stabilire cosa sia effettivamente normale.
In termini giuridici, la parola “norma”, ossia “l’unità elementare del sistema di diritto” come ebbe a scrivere Galgano è identificata come la conseguenza di un atto e, perciò, come appunto un comando che si ricava dall’interpretazione della legge.
Ora, se in termini appunto giuridici è più o meno intuitivo il percorso che ci consente di identificare un comportamento “regolare” rispetto a un comportamento “irregolare” cosa possiamo dire di tutto ciò che il diritto positivo non ha motivo di disciplinare?
In altre parole: quali sono quei comportamenti e quelle caratteristiche “normali” che possono definire una persona non a caso “normale”?
E quali sono quei dettagli “normali” che possono aiutarci a indicare un libro come “normale”?
Forse e ribadisco la parola “forse” una consuetudine che si è definita non già in virtù di una legge e che possiamo perciò osservare nella cosiddetta “media”.
Leggere quindi “Ulisse” a trent’anni è normale? E “Ulisse” è un libro normale?
Non pretendo di rispondere a domande alle quali probabilmente non si può trovare risposta e non pretendo di definire qui ciò che può definirsi “normale” nella vita di tutti i giorni poiché ciò che qui desidero ribadire è la convinzione per cui l’individuo sia il punto di partenza e il centro proprio in virtù della sua singolarità.
Se così non fosse, se l’individuo non fosse centrale nella società, non avrebbe senso quella frase fin troppo lisa ormai per cui “esiste un tempo per ogni cosa”: un tempo per essere bambini, un tempo per imparare a leggere e scrivere, un tempo per cominciare ad amare, un tempo per crescere, un tempo per (ri)cominciare a giocare e, probabilmente, un tempo per leggere un determinato libro.
Nel caso di specie, nel mio caso, nell’estate in cui mi sono ricordato di avere trent’anni ho cominciato a leggere James Joyce, (anzi, ho riprovato a leggere James Joyce) e malgrado le difficoltà iniziali che avevo avuto modo di realizzare già in un’altra occasione, “il tempo giusto” mi ha comunque permesso di portare a termine un viaggio oserei “iniziatico”.
“Io non so ben ridir com’i v’intrai” ma certi viaggi sono resi possibili non in virtù di una qualche forma di preparazione ma in virtù di un evento fortuito e inspiegabile, come il vento che tutt’a un tratto viene ispirato da Eolo e gonfia le vele di una nave.
Di conseguenza, non posso spiegare nel dettaglio come io sia riuscito, a trent’anni, dopo non poche letture a godere della lettura di un libro come “Ulisse” ma posso senza ombra di dubbio alcuno tentare di spiegare quali altri libri mi hanno aiutato a vivere con interesse il viaggio che sto descrivendo.
Uno di questi è “Il punto di svolta” di Fritjof Capra, un libro interessante e sicuramente impegnativo nel quale l’autore (un noto fisico austriaco) sottolinea l’importanza del superamento di tutti quei presupposti basati sull’ossessione di un pensiero lineare grazie all’esempio di chi ha cominciato a studiare la fisica quantistica: ossia una nuova teoria fisica che ha dimostrato l’importanza del superamento dei princìpi logici che avevano definito la fisica per decenni.
Un altro libro che ha aiutato a osservare le pagine di “Ulisse” con uno sguardo che a breve proveremo a definire è stato “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” di Benjamin Labatut: un libro decisamente più breve e meno ostico del saggio di Capra ma non per questo meno interessante poiché dedicato, infatti, alle vite di tutti quei grandi scienziati che hanno permesso lo sviluppo della fisica delle particelle.
Ma cosa, nello specifico, dei libri appena ricordati ha permesso una ben più sicura lettura del capolavoro di James Joyce? Credo l’aver compreso quale sia il presupposto fondamentale della fisica quantistica: la necessità di superare i presupposti logici del quotidiano e “abbandonarsi” all’osservazione di qualcosa di infinitamente piccolo ma oltremodo potente.
Vero, la fisica delle particelle insegna che il comportamento stesso delle particelle dipende dal ruolo dell’osservatore ma questo non spiega a sua volta il punto da cui ha avuto inizio una riflessione che ha costretto a ricordare il ruolo del singolo anche (e soprattutto) nei processi di lettura?
Come quegli uomini straordinari che hanno avuto il coraggio di fare a meno degli schemi confortanti a cui erano rimasti aggrappati per anni, ho letto perciò “Ulisse” con la convinzione che non dovessi leggere un libro “normale” ma un libro le cui pagine dovevano appunto essere osservate come si osserva un fenomeno quantistico: un fenomeno “diverso” dal quotidiano.
Una volta rinunciato dunque al bisogno (comprensibile) di capire immediatamente, ho iniziato così a godere dell’esperienza, della potenza visiva di immagini e parole autentiche ma soprattutto di un ulteriore presupposto che ancora non avevo mai osservato altrove: “Ulisse” è il viaggio non tanto di un uomo, Leopold Bloom, ma il nostro viaggio, (la nostra “Odissea”) nelle menti di tre persone: Leopold Bloom, il giovane Dedalus e la moglie di Bloom, Molly.
A prescindere dal viaggio, dalla giornata (o dalle giornate come qualcuno ha osservato, poiché di fatto il romanzo termina il 17 giugno), “Ulisse” è infatti un libro che spiega come funziona il cervello dell’essere umano (o perlomeno ci prova) e non a caso.
Dunque, “Ulisse” non è di certo un libro “normale” se si pensa a cosa sono tanti altri libri ma è senza dubbio un libro che, nonostante il disagio suscitato in molti (Virginia Woolf lo definì un libro “prolisso, torbido, pretenzioso”) ha reso possibile un “dopo”.
Sì, Umberto Eco lo definì “un punto di arrivo della tradizione romantica” ma in quanto tale, esso è senza dubbio anche un punto di partenza che ha reso possibile la letteratura del Novecento e le sue novità, nel “bene e nel male”.
Se esiste in effetti la convinzione che un libro “normale” debba rispondere a determinati requisiti questo è altresì merito indiretto di “Ulisse” il quale dal momento che oggi sarebbe probabilmente rifiutato da tutte le case editrici esistenti dimostra quanto sia importante per un autore e un editor saper anche “fare scandalo” se necessario, evitare di osservare pedissequamente le “regole del mercato” e riconoscersi finalmente nei motivi che ispirano la letteratura di ogni tempo: la necessità di andare anche contro corrente.
Dopotutto, cosa sono Leopold Bloom e Dedalus se non due “fuorilegge nel loro mondo” come scrisse Edmund Wilson su “New Republic” il 5 luglio del 1922? E noi, dopotutto, cosa siamo nel momento in cui accettiamo di pensare diversamente in un tempo che lo contraddice?
Se tanto mi da tanto, “fuorilegge” a nostra volta: pellegrini, moderni “Ulisse” che in “Ulisse”, “Il punto di svolta” e “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” spero possano trovare nuovi riferimenti.