Indipendentemente dalla normalità
Recentemente, ho avuto occasione di osservare su Instagram il tentativo di comunicare una “vita normale”: una vita, in altre parole, capace cioè di descrivere una normalità presunta e ben diversa dalla quotidianità di un influencer medio.
Ora, sebbene sia altresì vero che la routine di una persona che si sveglia alle otto del mattino, pratica sport e lavora otto ore al giorno sia una routine diversa da quella di una persona come Chiara Ferragni è inevitabile, tuttavia, domandarsi cosa significhi effettivamente la parola “normale”.
Il generale Roberto Vannacci ha tentato di spiegare alcune sue considerazioni aggrappandosi, oserei in maniera goffa, ai dettagli del termine “normale” e definendo quindi “normale” tutto ciò che risponde ad una norma, appunto, una media ma è così? Basta una media a definire i caratteri di una vita “normale”?
In linea di principio, “normale” è ciò che segue la “norma”, è vero, ma la norma non è pur sempre un fattore relativo? Si è normale, infatti, in relazione a qualcos’altro e pur considerando importante cercare di dimostrare attraverso i social network realtà non irrealistiche è comunque opportuno interrogarsi sullo scopo specifico dei contenuti condivisi in quanto tali.
In parole povere, se abbiamo imparato a giudicare irrealistico e a momenti stucchevole il valore dei messaggi condivisi da influencer come Chiara Ferragni è opportuno domandarsi se non sia altrettanto stucchevole, in virtù di ragioni paradossalmente non diversi, il valore di contenuti nei quali si descrive in maniera esclusiva una giornata come tante.
Insomma, a cosa serve condividere abitudini specifiche che, pur essendo senza ombra di dubbio sane, tutto sommato sono parte della quotidianità di tantissimi italiani?
Certo, ognuno di noi condivide e “segue” ciò che ritiene più opportuno ed è giusto che sia così ma indipendentemente dal fatto ognuno debba definire in piena autonomia il valore di una vita “normale”, credo sia opportuno interrogarsi sulle conseguenze che ha oggi la standardizzazione di alcuni stili di vita.
Come già osservato in altri contributi, esiste infatti una tendenza ben definita a standardizzare le persone e a classificare perciò le stesse in virtù di determinate scelte e caratteristiche utili a generare un flusso costante di dati e questo fatto, pur meritando un approfondimento specifico utile a comprendere il probabile destino della società dei consumi contraddice spesso il valore dell’individuo in quanto tale e in quanto cittadino.
Vero, il lavoro è qualcosa che definisce l’essere umano ma l’essere umano non si definisce solo grazie al lavoro e non già perché, purtroppo, non tutti possono fare il lavoro che vorrebbero ma perché il lavoro è un solo aspetto della vita.
Se quindi la comunicazione tipo non è capace di identificare un’alternativa tra l’eccesso e una presunta normalità come possiamo aspettarci valutazioni complesse della realtà? Valutazioni capaci di superare dicotomie poco pratiche e contrarie ad un pieno sviluppo intellettuale delle maggioranze?
La convinzione che non possa essere contemplata un’alternativa a ciò che viene indicato dall’autorità è una convinzione che condiziona l’individuo fin da bambino, fin dalle scuole e costringe lo stesso dapprima a adempiere passivamente il proprio dovere come studente e poi come lavoratore.
La convinzione che tuttavia non possa esistere la possibilità effettiva di contraddire l’autorità quando essa è in torto non è però una convinzione degna di una società civile bensì di una caserma e sebbene sia essa in teoria contraddetta, in pratica, si continua tuttavia a incoraggiare.
Considerato il naufragio verso il quale sembrano costrette le intenzioni di chi vorrebbe proporre un’alternativa a Chiara Ferragni grazie a una presunta normalità è opportuno considerare che forse, il futuro può essere affrontato solo grazie ad un nuovo paradigma.
Se consideriamo infatti la crescente necessità di innovare prima di ogni cosa il nostro approccio nei confronti della realtà possiamo immediatamente realizzare quanto sia opportuno superare semplificazioni banali, schemi ripetitivi e ispirati da presupposti rigidi; in parole diverse ma non per questo spero meno efficaci, se consideriamo davvero opportuno proporre soluzioni utili a migliorare lo stile di vita delle persone dovremmo cominciare a ripensare il loro ruolo nella società e a considerare il fatto che esse possano giustamente essere qualcosa di più di meri consumatori e meri produttori.
L’approccio riduzionista che ormai ha raggiunto il culmine nelle sue più diverse sfaccettature come lo scientismo, un individualismo sterile e fine a sé stesso, un iper-specializzazione che nega la capacità del singolo di approfondire e capire non può più rispondere alle domande di chi, nonostante il progresso, non è capace di maturare o di riflettere sul valore che la consapevolezza.
Allo stesso modo, la considerazione che possa essere “utile” una persona che ha abilità spendibili sul mercato non solo è riduttiva e offensiva nei confronti della stessa, come persona, ma anche della logica più creativa che potrebbe permettere alla stessa di essere “utile” in un processo di sviluppo non ancora chiaro.
In conclusione, l’ostinazione teorica che pretende di continuare a incoraggiare un riduzionismo asfissiante in ogni ambito, specie in quello formativo e lavorativo rischia di spezzare la natura dell’essere umano: una natura complessa ma che poco o nulla può continuare a condividere con la pretesa di banalizzare la realtà o schematizzare la stessa nei confini di abitudini alienanti.
Siamo di più di ciò che facciamo: siamo, in breve, anche ciò che possiamo fare e negare a noi stessi la possibilità di essere non solo studenti, dipendenti, liberi professionisti o imprenditori significa negare capacità spesso sconosciute.