L’eredità incompresa di una (Grande) guerra

Come in parte ho già anticipato, “(De) Vita e destino” ha scelto come categoria di riferimento qui, su Spotify, “storia” perché parleremo prevalentemente di ciò che è stato ma dal momento che ciò che è stato ci appartiene e che molto di ciò che sarà il nostro futuro dipenderà dal nostro passato credo sia opportuno chiarire fin da subito che la categoria “storia” potrà in effetti rivelarsi talvolta riduttiva.

La verità è che, sebbene a scuola ci abbiano insegnato il contrario, la storia non è una mera sequenza di date e dati, care amiche e cari amici, ma una risposta più o meno precisa a molte di quelle che sono le nostre domande.

In altre parole, sebbene la storia non risponda a regole precise (o prevedibili), essa è ancora, giustamente, “maestra di vita” e dal momento che essa può tutt’ora aiutarci a definire il nostro oggi e a capire di conseguenza come meglio affrontare il nostro domani è giusto ricominciare a ribadire quanto importante sia ricordare che il suo studio non dipende da ragioni ideologiche.

Infatti, non è grazie all’ideologia che sarà forse possibile capire cosa abbia voluto dire Papa Francesco quando ha parlato di “Terza guerra mondiale a pezzi” e forse, non sarà nemmeno grazie all’ideologia che probabilmente comprenderemo il vero motivo del conflitto in Ucraina ma grazie non a caso ad uno studio consapevole (e oggettivo) del passato.

A prescindere però dal significato di “Terza guerra mondiale a pezzi” e dall’origine dell’attuale contrasto con la Russia a est, chi studia la storia non può fare a meno di notare analogie oggettive (o presunte) tra il nostro oggi e quelli che sono stati i prodromi dei conflitti mondiali.

In un contributo pubblicato su Limes nel 2014, John C. Hulsman scrisse infatti che “Il mondo odierno e quello del 1914 presentano inquietanti analogie, come una grande potenza in declino, il ritorno dei nazionalismi, una rete di alleanze che favorisce l’azzardo e la fede cieca nell’economia.”

Ma la Prima guerra mondiale non fu, come ripetuto ingenuamente a scuola, la conseguenza di un attentato ma un evento storico decisamente molto più complesso che dipese anche e soprattutto dalla noncuranza di molto uomini di potere, i quali gettarono un’intera generazione nel fuoco quasi senza rendersi conto di cosa avrebbe significato.

Comprendere dunque, prima di ogni cosa, che un fatto storico ha luogo perché talvolta non riusciamo a interpretare la complessità è importante e non già perché può essere un primo passo per comprendere il senso della complessità ma perché anche all’inizio del Ventesimo secolo gli uomini al potere in Europa sono convinti che la pace sia la norma, piuttosto che una miracolosa eccezione.

Certo, ogni periodo storico è unico e la storia non sempre si ripete allo stesso modo (proprio perché ogni presente è uguale a sé stesso) ma nonostante gli Stati Uniti d’America di oggi non siano l’Inghilterra edoardiana del 1914 è opportuno tenere a mente il fatto che oggi, come allora, a tenere conto di una multipolarità emergente vi è una potenza in relativo declino le cui contraddizioni sono oggetto di attenzioni sempre più crescenti.

Tra i tanti motivi di analogia con l’Europa del 1914 vi è però inoltre anche il tema dell’interdipendenza economica, un tema affrontato da Norman Angell per primo nel libro “La Grande illusione” e che nonostante il fervente clima nazionalista del tempo tentò di convincere del fatto che non ci sarebbe stata nessuna guerra generale dal momento che i costi complessivi avrebbero scoraggiato qualunque iniziativa.

Certo, con il senno di poi è facile sorridere di una previsione sbagliata ma quanto di ciò che oggi noi stessi tentiamo di prevedere viene smentito perché incapaci di servirci con oggettività dei dati?

A prescindere infatti dall’errore e dalla convinzione, di per sé vera in termini teorici di Norman Angell, la sua convinzione ci insegna quanto sia importante diffidare da quelle asserzioni teoricamente, (appunto), troppo vere per resistere all’impatto con una realtà dove tutto può accadere (compresa la dimenticanza di una contraddizione).

Norman Angell, nella sua forse eccessiva fiducia, dimenticava in ogni caso che la guerra, a suo tempo, erano comunque in molti a pensare che prima o poi ci sarebbe stata proprio come talvolta, anche oggi, qualcuno usa purtroppo ripetere con altrettanta eccessiva facilità.

Vero, è bene ricordare che la nostra Europa non è l’Europa del 1914 perché prima di ogni cosa è un’Europa che sa di rischiare un conflitto diverso e potenzialmente fatale ma siamo tutti davvero consapevoli dei rischi intrinseci ad un conflitto prolungato con una potenza come quella russa?

L’idea in effetti di portare avanti un conflitto con la Federazione russa, oggi, non solo ci dovrebbe in effetti costringere a interrogarci sul nostro ruolo, come Occidente, in relazione a ciò che (non) è Occidente (o crediamo non essere tale) ma anche sulla possibile conseguenza di uno scontro militare con una potenza emergente che conosciamo a malapena e che tutt’ora possiede un nutrito arsenale atomico.

La facilità con la quale anche oggi ha luogo, spesso, un dibattito sul possibile coinvolgimento in una guerra come se essa fosse una simulazione è triste e ricorda, tra le altre cose, la facilità con la quale appunto si dimentica cosa fu la Prima guerra mondiale prima di tutto.

Ma cosa fu la Grande guerra? Il terribile conflitto che sconvolse il mondo tra il 1914 e il 1918 ha inizio il 28 giugno del 1914 quando l’erede al trono dell’impero austro-ungarico, Francesco Ferdinando d’Asburgo, cade sotto i colpi di un irridentista slavo a Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina, una provincia da poco annessa all’impero.

L’episodio, già ricordato, il casus belli che determina lo scoppio della guerra, non sarebbe mai stato ricordato come “la goccia che ha fatto traboccare il vaso” ma Vienna attribuisce alla vicina Serbia, che da tempo alimenta l’opposizione antiaustriaca delle popolazioni slave sottomesse nei Balcani, la responsabilità dell’assassinio.

Vero, l’accusa è pretestuosa e sebbene le prove di un effettivo coinvolgimento della Serbia si avranno solo a guerra conclusa l’Austria considera subito l’occasione utile per risolvere il problema serbo.

Alle spalle dell’Austria si muove nel frattempo l’alleata Germania del giovane Guglielmo II e dopo un primo momento di esitazione viene presentata alla Serbia un ultimatum le cui condizioni sono talmente inaccettabili da far pensare che la guerra sia un fatto quasi desiderato.

Forte dell’appoggio russo, la Serbia asseconda a modo suo, se vogliamo, quanto appena osservato e dopo aver respinto le richieste austriache si prepara ad un conflitto che appunto Austria e Germania incoraggiano con sinistra dedizione.

In breve, il meccanismo di alleanze sospinge Berlino, Mosca, Londra e Parigi negli opposti schieramenti ed entro la prima settimana di agosto l’Europa si ritrova in guerra e nella condizione di contraddire chi riteneva che l’interdipendenza economica avrebbe evitato uno scontro generale.

Al confronto si preferisce perciò, senza esitare, lo scontro brutale e ciò che ne emerge, in parole povere, è una situazione nella quale tutti temono l’affermazione di una nuova potenza ma nessuno una guerra.

Nei discorsi degli statisti si percepisce infatti una sorta di disponibilità culturale allo scontro a cui sul piano ideologico offre legittimazione l’applicazione ai rapporti internazionali una triste declinazione della teoria di Charles Darwin: il cosiddetto “darwinismo sociale”.

Inoltre, nonostante le attente analisi economiche, c’è chi nel mondo dell’industria è pronto per fare profitti, c’è chi crede che la guerra possa stemperare i rischi di una lotta di classe e poi ci sono i vertici militari che, sebbene dimostreranno presto di aver preparato delle strategie militari inefficaci scalpitano per poter appiccare un incendio fin troppo facile da appiccare ormai.

Ma alla base della questione, in realtà, c’è tutto tranne che una consapevolezza sincera poiché ovunque si trascurano le conseguenze connesse ai mutamenti tecnologici e sociali in atto: non soltanto, appunto, la guerra è più distruttiva di un tempo ma a causa del rafforzamento delle capacità difensive contro il potenziale offensivo è in concreto molto difficile raggiungere una soluzione militare rapida sui campi di battaglia i quali per poco più di quattro anni si macchieranno quasi ininterrottamente del sangue di milioni di persone.

La Grande guerra, terminata appunto solo nel 1918, non solo è stata tuttavia decisiva nel decretare la fine degli imperi centrali e la fine di sistemi di potere contradditori e a momenti esausti ma è stata altresì decisiva per definire numerose conseguenze significative del Ventesimo secolo.

A suo modo, La Grande guerra è stata altresì la dimostrazione di quanto sia importante la consapevolezza del ruolo proprio della complessità in una società in rapido mutamento: come nel 1914 anche noi siamo infatti alle prese con mutamenti geopolitici che incoraggiano la nascita di un mondo multipolare e mutamenti tecnologici che non possiamo capire esclusivamente assecondando le istanze di quelle industrie che grazie ad esse ricaverebbero enormi profitti.

Insomma, la Prima guerra mondiale non è la nostra “Terza guerra mondiale a pezzi” ma con essa condivide non poche analogie e se è davvero nostra intenzione preservare la pace ma soprattutto quei valori che crediamo definirci in modo esclusivo non solo dovremmo ricominciare a conoscerne l’origine ma dovremmo anche approfondire con ragionevolezza i “perché” dei fatti di cui siamo protagonisti.

In un punto ben definito e senza ombra di dubbio lontano dalle facili pretese di una guerra che non può essere affrontata come una partita a Risiko esiste, in conclusione, la consapevolezza ma anche una più che documentata analisi del conflitto in esame, il conflitto in Ucraina, ma questa è un’altra storia ossia un’altra puntata di “(De)Vita e destino”.