Il vero limite della libertà di espressione

Nel corso di una recente intervista, la giornalista Milena Gabanelli ha dichiarato che “A volte, il limite della democrazia è la democrazia stessa”.

Nello specifico, ha precisato che: “Chiunque non può parlare di qualunque cosa per via del fatto che ha il diritto di dire e quindi influenzare altre persone su dei princìpi o delle informazioni che sono provatamente sbagliate.”.

Ora, ciò che la nota giornalista di cui non ripeterò il nome ha dichiarato è un’affermazione già ascoltata negli ultimi anni, (lo stesso Enrico Mentana dichiarò infatti che non avrebbe ospitato i cosiddetti “No vax”) ma ciononostante ci costringe a riflettere con non poca attenzione a proposito di ciò che effettivamente significa libertà di opinione.

Il primo comma dell’articolo 21 della Costituzione prevede che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.”

Ne consegue che, sebbene la stampa non possa essere soggetta ad autorizzazioni o censure si possa procedere con limitazioni del diritto descritto nell’articolo 21 solo “per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili.”.

Vero, sono altresì vietate le pubblicazioni contrarie al buon costume ma non di certo, perlomeno in ambito costituzionale, si indicano contrari al diritto di espressione i presupposti fin qui auspicati da Milena Gabanelli o a suo tempo da Enrico Mentana.

Nel caso di specie, restando nell’ambito della dottrina costituzionale, bisogna in effetti ammettere che il tema della libertà di espressione è un tema complesso il cui ritrovato costituzionale (che appunto si cristallizza nel già citato articolo 21) è stato reso possibile grazie ad un lungo percorso storico.

In modo particolare, prescindendo dalle motivazioni appunto storiche del diritto in esame, vale la pena ricordare che la Corte costituzionale ha affermato con le sentenze n. 126 del 1985 e n. 112 del 1993 che la libertà di manifestazione del pensiero va annoverata tra i “diritti inviolabili dell’uomo” di cui all’art. 2 della Costituzione e che essa costituisce, anzi, (grazie invece alle sentenze n. 168 del 1971 e n. 138 del 1985) “il più alto, forse” dei “diritti primari e fondamentali” sanciti dalla Costituzione.

Come conseguenza di quanto appena ricordato, nelle sentenze n.122 del 1970 e n.15 del 1975 la Corte si è inoltre spinta a dichiarare che la Repubblica ha il dovere non solo quindi di non comprimere la libertà di espressione ma anche di garantirla nei reciproci rapporti interpersonali, imponendone “il rispetto da parte delle pubbliche autorità come dei consociati”.

Come se non bastasse, la Consulta, per vero, ha altresì spesso evidenziato che questa libertà rappresenta “una di quelle […] che meglio caratterizzano il regime vigente nello Stato, condizione com’è del modo di essere e dello sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale” (sentenze n. 9 del 1965, n. 11 del 1968 e n. 100 del 1981); e, in altre occasioni, ha posto addirittura l’accento sul rapporto tra libertà di manifestazione del pensiero e ordine democratico, osservando che la prima è “pietra angolare” del secondo (sentenza n. 84 del 1969), “cardine di democrazia nell’ordinamento generale” (sentenza n. 132 del 2020), figura di “rilevanza centrale […] anche e soprattutto in forma collettiva […] ai fini dell’attuazione del principio democratico” (sentenza n. 126 del 1985).

Sia ben chiaro, però, che per giungere a tali affermazioni è opportuno riconoscere che la Corte ha adottato l’impostazione metodologica caratteristica della teoria “individualista”, attribuendo alla libertà di manifestazione del pensiero un valore costituzionale originario, anziché derivato dal principio democratico ed è importante riconoscerlo non già perché il metodo, in sé, sia meno importante di un processo diverso ma perché individua, come si vedrà, proprio nell’individuo il motivo principale di esecuzione.

Ma cosa significa, esattamente?

Nella sentenza n. 9 del 1965, la Corte rilevò che la manifestazione del pensiero rientra tra le libertà fondamentali proclamate dalla Costituzione e che, pertanto, “limitazioni sostanziali […] non possono essere poste se non per legge […] e devono trovare fondamento in precetti e principi costituzionali, si rinvengano essi esplicitamente enunciati nella Carta costituzionale o si possano, invece, trarre da questa mediante la rigorosa applicazione delle regole dell’interpretazione giuridica”.

In altre parole, se l’oggetto della tutela è una libertà individuale, la portata della garanzia è la più estesa possibile ed essa riguarda, anzitutto, il contenuto dell’atto espressivo.

In tale senso, i confini della libertà di manifestazione del pensiero trascendono l’ambito dell’espressione (sia essa scritta, parlata o raffigurata) e arrivano a comprendere anche la rappresentazione dei sentimenti o degli stati passionali.

Entro tali confini va così inclusa ogni manifestazione esteriore, anche quando consistente in un comportamento con significato implicito (si pensi alla condotta di chi brucia una bandiera o un simbolo) o nel semplice silenzio, inteso come diritto a non esprimere alcun pensiero, che costituisce un profilo rappresentativo di quella “libertà di non fare” insita nel riconoscimento di ogni libertà.

Dunque, negli stessi confini descritti rientrano poi tutte le forme diffusive di un’idea, comprese quelle che mirano ad influenzare le altrui coscienze od opinioni.

Ma la tutela riconosciuta dall’articolo 21 della Carta riguarda però anche l’attività di propaganda e di critica come la Corte costituzionale ha espressamente chiarito per i profili attinenti all’ambito politico e sebbene in questa sede non approfondirò per ragioni evidenti i termini della questione, ricordo altresì che ai sensi della sentenza n.126 del 1985, la tutela costituzionale tollera “la critica anche aspra delle istituzioni, la prospettazione della necessità di mutarle, la stessa contestazione dell’assetto politico sociale sul piano ideologico”, arrestandosi soltanto di fronte a “un incitamento all’azione e quindi un principio di azione, e così di violenza contro l’ordine legalmente costituito, come tale idoneo a porre questo in pericolo”.

Come se non bastasse, nella sentenza, infine, n.199 del 1972,  la Corte ha tutelato anche il già menzionato diritto di critica perché in essa, nella critica, l’espressione del pensiero assume la forma di una contrapposizione polemica, che mira a censurare opinioni o comportamenti altrui e, talvolta, anche a provocare la reazione dei destinatari del messaggio ed è proprio da tale modalità espressiva, ha evidenziato la Corte, si “trae alimento per assicurare, in una libera dialettica delle idee, l’adeguamento dell’ordinamento e delle istituzioni ai mutamenti intervenuti nella coscienza sociale”.

In conclusione, la lunga (e non del tutto approfondita) giurisprudenza della Consulta potrebbe contribuire a spiegare non bene ma di più il valore che la libertà di espressione ha a prescindere, indipendentemente da quei rischi osservati da Milena Gabanelli e colleghi.

Ciononostante, indipendentemente da quel valore giuridico che trova espressione nell’interpretazione della nostra Costituzione vale la pena domandarsi, in termini ben più pratici, quale sia il vero limite della democrazia.

Se, in effetti, è vero in termini teorici che “Chiunque non può parlare di qualunque cosa per via del fatto che ha il diritto di dire e quindi influenzare altre persone su dei princìpi o delle informazioni che sono provatamente sbagliate.” è altresì vero che occorre domandarsi chi in determinati contesti possa arrogarsi il diritto di valutare in modo quantomeno oggettivo i princìpi o le informazioni e se egli (o ella) sia all’altezza e indipendente come afferma.

Negli ultimi anni, mutatis mutandis, dichiarazioni di per sé oggettivamente vere o semplicemente dubitative come ad esempio “il Green Pass non è una garanzia di sicurezza in termini assoluti” o “la Federazione Russa potrebbe non subire i contraccolpi economici che auspichiamo” avrebbero potuto rischiarare infatti la censura preventiva non perché appunto inesatte ma perché contrarie ad una specifica osservazione.

Se quindi si procedesse con il limitare ogni dichiarazione ritenuta inesatta semplicemente perché contraria all’opinione considerata vera in quel momento (spesso per partito preso o per ragioni ideologiche) si rischierebbe di perseguire un processo di negazione della complessità e ciò a chi gioverebbe, davvero?

I grandi problemi del presente non possono essere affrontati con proposte scontate o sterili divisioni che assecondano spesso e volentieri un potere non sempre trasparente nelle sue azioni poiché i grandi problemi del presente meritano non a caso un’attenzione che tenga conto dell’importanza dell’educazione come valore.

Il progresso più autentico dell’individuo in una società effettivamente democratica non trova riscontro, infatti, in soluzioni già preparate da terzi, ma nel confronto e nel superamento del più volte ricordato presupposto del “divide et impera”.

Un’idea sciocca, di per sé, in un confronto obiettivo non può trovare lo spazio necessario per crescere e se ciò è vero, come ritenuto da chi vorrebbe vestire i panni del censore perché si vorrebbe procedere con la censura? Forse che, in verità, non è ciò che è sciocco a trovare riscontro in società ma ciò che è diverso?

Resta il fatto, purtroppo, che dietro le etichette grossolane con le quali il giornalismo e la politica pretendono di spiegare i fatti, la libertà di espressione rischia di comprimersi per colpa ancora prima che del disinteresse dei più, per colpa dell’ideologia che nega la ragione e dell’idea che una qualunque opinione capace di negare una presunta verità debba essere immediatamente bandita dal dibattito ancora prima di essere affrontata con criterio.

Il vero limite della libertà di espressione qual è, dunque? È effettivamente in sé stesso? O altrove?

Forse nel fatto che un’idea inesatta e non adeguatamente supportata da fatti e conoscenze non può scalfire un’autentica verità e che, se qualcuno ritiene opportuno limitare un’idea significa che siamo infine ben lontani da una convinzione inopportuna ma molti più vicini a quella temuta censura che non piace a chi grida “viva la democrazia”.