I nani di Paola Cortellesi e la sana progenie della cultura dell’apparenza
Pochi mesi fa, una ragazza mi disse che preferiva i libri di crescita personale ai romanzi perché li considerava più utili.
Sebbene riconobbi immediatamente quanto offensivo fosse dire a chi scrive romanzi che i romanzi sono inutili, (a prescindere), solo qualche settimana dopo capì che quella frase era degna di una “figlia sana della cultura dell’apparenza” perché per quanto possa sembrare strano, infatti, non esiste solo “il figlio sano del patriarcato” ma esistono anche il “figlio sano della cultura dell’apparenza” e “la figlia sana dalla cultura dell’apparenza”.
Ho ripensato non poco al giorno in cui ho capito quanto fosse più facile vendere ciarpame buonista che ti promette come migliorare le tue “performance” (forse grazie ai trucchi di Marina Abramovich) ma solo dopo l’intervento di Paola Cortellesi a proposito di Biancaneve ho capito quanto la cultura dell’apparenza fosse pericolosa e sebbene sia in linea di principio vero che leggere un romanzo possa essere un’attività inutile è importante ricordare che ogni libro è uguale a sé stesso ed è quindi possibile che un particolare romanzo possa suggerire qualcosa di più di un libro di crescita personale e viceversa.
Se è dunque sbagliato generalizzare quando si discute di letteratura perché si incoraggia la medesima attività quando si discute di essere umani e, in modo particolare, di differenza tra i sessi?
La risposta a questa ultima domanda si può individuare attraversando i sentieri che ci propone la ricerca e che termina, forse, dove aspetta la banalità del “take away”.
Se la fretta morde i talloni, esiste infatti una soluzione di cui è possibile approfittare quotidianamente ed è una soluzione rapida, immediata che non propone solo una catena di fast food di fronte a chi non ha voglia di mangiare sano ma anche il telegiornale di fronte a chi non ha voglia di pensare, (sano).
A prescindere dal fatto che talvolta le due figure appena ricordate coincidano e che di conseguenza fast food e telegiornali rispondano alle esigenze della stessa figura di consumatore, è abbastanza evidente ormai che le televisioni non siano appunto più capaci di proporre riflessioni interessanti e complesse ma slogan e pensieri ovvi utili da spendere in ascensore con i colleghi o al bar.
Cercare un libro per approfondire un tema, in altre parole, è difficile quanto cercare un buon prodotto al mercato perché comporta tempo e siccome il tempo deve essere speso in maniera “produttiva” ne consegue che l’ovvio (l’Ovvio) e tutto ciò che appare trionfano (quasi) ovunque.
Tentare in conclusione di affrontare i “perché” è sempre più pericoloso e domandarsi quale sia il senso più profondo delle cose rischia perciò di apparire come un vero e proprio atto eversivo.
Domandarsi di conseguenza che cosa sia effettivamente il fascismo per tentare di comprendere perché delle persone partecipino a delle commemorazioni in cui si grida “presente” rischia di essere interpretato nel modo sbagliato e non già perché rischia di apparire come una forma di condanna “non autorizzata” ma anche perché potrebbe suggerire di vedere il fascismo anche altrove.
Il fascismo, esattamente come altre manifestazioni aberranti dell’essere umano, non possiede più un corpo che indossa una camicia nera o un fez ma frasi destinate a creare schieramenti, schieramenti banali che riducono tutto al conformismo, alla scelta facile tra i “buoni” e che confermano in definitiva quanto un presente incapace di creare riflessioni effettivamente costruttive sia stupido.
Insomma, l’essere umano del Ventunesimo secolo, quello che ha fretta e che pretende di spiegare tutto sulla base del profitto, non può apprezzare la letteratura, il principio più autentico del mito perché è ignorante, nel senso più puro del termine.
A poco possono servire le lauree e i master senza “perché” e a poco, quindi, possono servire le belle parole se ancora si è convinti, come Paola Cortellesi, che basti abbattere un mondo vecchio per costruirne uno nuovo dal momento che ancora una volta, la storia insegna che chi non è in grado di inventare qualcosa di nuovo e chi non è in grado di penetrare il significato letterale della cultura è destinato a proporre soluzioni a problemi inesistenti.
L’attuale Presidente del Consiglio dei ministri è una donna, la presidente della Commissione europea è una donna, così come il presidente dell’europarlamento e della Banca centrale europea ma nessuno, perlomeno in Italia e in Europa ha colto effettivamente i margini di una gestione diversa del potere e la ragione è presto spiegata: uomini o donne che siano, di fronte al potere, non a caso, sono (quasi) tutti uguali.
Piuttosto che preferire a prescindere infine una donna solo in ragione del fatto che è donna, perché abbiamo smesso di pensare che fosse meglio preferire una persona di valore? Perché probabilmente abbiamo permesso all’apparenza di spiegare tutto e di fare della stessa un’arma nelle mani di un potere che piuttosto che investire in educazione preferisce investire nel controllo e a creare nemici dove non esistono.
Il diritto di una donna di poter disporre del proprio corpo liberamente e di essere indipendente, come donna e come cittadina è un diritto che merita tutela esattamente come quello di un uomo di fronte alla pervasività di un complesso di istituzioni che ha dimenticato le ragioni per cui sono nate e il suo diritto, esattamente come quello di un uomo, non trova soddisfazione in una sterile polemica che vede in Barbie o in Paola Cortellesi un simbolo di emancipazione e nemmeno in una giornalista che dimentica che Oppenheimer era un uomo vissuto nella prima metà del Ventesimo secolo ma in una discussione seria sul fatto che le grandi potenze, oggi, investono ancora nelle armi atomiche.
La triste chiacchierata sulla figura di un Oppenheimer maschilista di fronte a Barbie e a Paola Cortellesi, se non è chiaro, è stata una grande azione diversiva proprio per non discutere del problema dei problemi, di uno dei tanti pericoli che corre la nostra civiltà e che meglio di fatto affrontare con fretta, indifferenza e magari in tarda serata.
Qualcosa, però, è ancora possibile e sebbene sia forse difficile ammetterlo, una sana resistenza contro l’ovvio, (pardon, l’Ovvio) può trovare forza esattamente dove la trovò la Resistenza che tanto crediamo ci sia cara: nel rifiuto.
Dimenticare quanto sia importante, infatti, lo studio critico della storia significa dimenticare il significato di ciò che siamo e, naturalmente, del modo in cui siamo diventati ciò che siamo.
Di conseguenza, dimenticare lo studio oggettivo della storia e trascurarlo vuol dire dimenticare che noi siamo il risultato di una continua risposta, ossia di una continua ribellione prima contro re Giovanni Senzaterra, poi contro la monarchia d’Inghilterra nel giorno in cui i coloni gettarono il tè in mare perché a fronte delle tasse versate non avevano rappresentanza e infine contro il nazifascismo, tra i monti.
In parole povere, perseverare nella scelta di continuare a sfamare l’evidenza e la fretta per partito preso è una scelta che contraddice ciò che siamo, i diritti per cui l’Occidente che tanto crediamo di amare ha ideato e difeso dopo secoli di eventi e battaglie esattamente come il perseverare nella scelta di ritenere che ogni decisione presa dalle istituzioni sia fatta in maniera trasparente e nel nostro interesse.
Non a caso, credere che l’azione di un uomo, in breve, di abbattere degli autovelox sia una mera azione vandalica può essere un errore perché, non solo noi siamo il risultato di azioni contro ingiuste imposizioni fiscali come nel caso del già citato “Boston tea party” ma anche perché non considerare l’evento nel suo complesso significa prestare il fianco a quelle stesse (non) soluzioni che pretendono di suggerire che le generalizzazioni sono giuste, sì, ma solo quando lo dice il telegiornale.