Noi e Waterloo

Dopo aver visto al cinema “Napoleon” di Ridley Scott, ho pensato bene di schiarirmi le idee recuperando il film “Waterloo” del 1970 e non già perché avessi bisogno di un modo per superare un parziale senso di scoramento ma perché sotto sotto, a Waterloo ci siamo stati tutti.

La maggioranza di chi ha conosciuto Waterloo grazie alla canzone degli ABBA o ad una maestra annoiata non lo sa perché vive, anzi “sopravvive e basta” ma Waterloo, sebbene non sembri, è infatti parte di tutti noi perché presto o tardi, nella vita, la sconfitta tocca chiunque.

Diretto da Sergej Bondarčuk e prodotto da Dino De Laurentis, “Waterloo” è un film ben fatto, un film che, a differenza di “Napoleon” non pretende di raccontare il tutto ma di raccontare una singola vicenda della vita di Napoleone Bonaparte, ossia la disfatta di Waterloo, appunto, con oggettività e senza retorica.

Sì, è vero, il film è del 1970 ma nonostante tutto è gradevole, per niente goffo e a tratti, oserei addirittura geniale: le scene nelle quali noi spettatori possiamo ascoltare quelli che possono essere stati i pensieri più intimi dell’imperatore e del suo nemico, il duca di Wellington, sono in effetti scommesse ben riuscite.

Inoltre, gli errori storici osservati sono, a differenza di quelli presenti nel film con Joaquin Phoenix, nel complesso tollerabili e la stessa presenza nel cast di attori come Rod Steiger, Christopher Plummer e Orson Welles ispirano al cuore di chi ama il cinema esperienze interessanti e, a momenti, quasi malinconiche, forse.

La verità è che io non so se si possa fare un film di tre ore su Napoleone Bonaparte né se si possa fare un film di due ore su un singolo momento della vita “del più grande uomo d’azione nato in Europa dai tempi di Giulio Cesare” come ebbe a dire Winston Churchill ma so per certo che “Waterloo” è un film singolare, un film suggestivo che, a suo modo, ha fatto la storia o quantomeno la mia storia.

Di “Napoleon”, un film strano, sospeso, a tratti interessante, certo ma diverso e troppo, troppo umano non scriverò più, come ho già promesso ma ora che ho nella mente nel cuore le sequenze nelle quali un imperatore più autentico come Rod Steiger soffre e ammira con nostalgia il ritratto del figlioletto prima della sua ultima battaglia non posso non ripensare a quanto troppo sporca sia stata l’interpretazione di Ridley Scott.

In conclusione, sebbene “Waterloo” sia un prodotto cinematografico di cinquantatré anni fa e sebbene descriva un evento storico avvenuto duecentootto anni fa, racconta molto bene, ai nostri cuori stanchi e impegnati ogni giorno a rifiutare il fallimento, quello che Alessandro Barbero spiegò non molto tempo fa in un’intervista, ossia che la sconfitta è un momento dal quale imparare, un evento ricco di pathos perché nega ad una nazione e ad un esercito il raggiungimento di uno scopo e, in un’ultima analisi, un episodio ricco di sentimenti estremi, sentimenti umani che danno forma alla storia, ossia a noi, nonostante il nostro disinteresse per lo studio della civiltà e il nostro impegno per consolidare un tempo patetico, sempre più ossessionato dalla forma, dal rischio zero e dalla necessità di sterilizzare il dolore per vendere la felicità in contenitori di plastica.