Se gli Stati Uniti dicono no a Parigi…

“L’accordo negoziato da Obama impone target non realistici per gli Stati Uniti nella riduzione delle emissioni, lasciando invece a paesi quali la Cina un lasciapassare per anni”.

Donald Trump, annuncia così il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima.

Deciso a mantenere la parola data ai suoi elettori, il presidente tira dritto.

Barack Obama attacca: “L’amministrazione Trump si sta unendo a una piccola manciata di nazioni che rifiutano il futuro”.

L’ex presidente ha sottolineato di aver “fiducia nel fatto che gli Stati, le città e le aziende faranno un passo avanti e aiuteranno a proteggere il pianeta per le future generazioni”.

“Gli Stati Uniti cominceranno a negoziare un nuovo accordo sul clima”, ha rilanciato Trump. “Vogliamo un accordo che sia giusto. Se ci riusciremo benissimo, altrimenti pazienza”.

Ha aggiunto: “Ci sarà quindi la fine dell’applicazione degli impegni di riduzione”, e soprattutto dei versamenti al Fondo verde per il clima che costa agli Usa una fortuna”.

Trump mantiene così un’altra promessa fatta in campagna elettorale. Fino a un certo punto, però: presupponendo un ritiro totale dall’accordo parigino, ci vorranno quattro anni per completare l’iter e ciò significa che una decisione finale spetterebbe agli americani quando sceglieranno il loro prossimo presidente solo nel 2020…

Ma cosa prevede in concreto l’accordo di Parigi sul clima?

Alla conferenza sul clima di Parigi (COP21) del dicembre 2015, 195 paesi hanno adottato il primo accordo universale e giuridicamente vincolante sul clima mondiale.

L’accordo definisce un piano d’azione globale, inteso a limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2ºC.

I governi hanno concordato di:

  • mantenere l’aumento medio della temperatura mondiale ben al di sotto di 2°Crispetto ai livelli preindustriali come obiettivo a lungo termine
  • puntare a limitare l’aumento a 1,5°C, dato che ciò ridurrebbe in misura significativa i rischi e gli impatti dei cambiamenti climatici
  • fare in modo che le emissioni globali raggiungano il livello massimo al più presto possibile, pur riconoscendo che per i paesi in via di sviluppo occorrerà più tempo
  • procedere successivamente a rapide riduzioni in conformità con le soluzioni scientifiche più avanzate disponibili.

Prima e durante la conferenza di Parigi, i paesi hanno presentato piani nazionali di azione per il clima completi (INDC). Questi non sono ancora sufficienti per mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 2ºC, ma l’accordo traccia la strada verso il raggiungimento di questo obiettivo.

I governi hanno in definitiva concordato di:

  • riunirsi ogni cinque anni per stabilire obiettivi più ambiziosi in base alle conoscenze scientifiche
  • riferire agli altri Stati membri e all’opinione pubblica cosa stanno facendo per raggiungere gli obiettivi fissati
  • segnalare i progressi compiuti verso l’obiettivo a lungo termine attraverso un solido sistema basato sulla trasparenza e la responsabilità.

I governi hanno inoltre programmato di:

  • rafforzare la capacità delle società di affrontare gli impatti dei cambiamenti climatici
  • fornire ai paesi in via di sviluppo un sostegno internazionale continuo e più consistente all’adattamento.

L’accordo, infine, riconosce:

  • l’importanza di scongiurare, minimizzare e affrontare le perdite e i danni associati agli effetti negativi dei cambiamenti climatici
  • la necessità di cooperare per  migliorare la comprensione, gli interventi e il sostegno in diversi campi, come i sistemi di allarme rapido, la preparazione alle emergenze e l’assicurazione contro i rischi.

L’accordo riconosce il ruolo dei soggetti interessati che non sono tuttavia parti dell’accordo nell’affrontare i cambiamenti climatici, comprese le città, altri enti a livello subnazionale, la società civile, il settore privato e altri ancora…

Essi sono invitati a:

  • intensificare i loro sforzi e sostenere le iniziative volte a ridurre le emissioni
  • ridurre la vulnerabilità agli effetti negativi dei cambiamenti climatici
  • mantenere e promuovere la cooperazione regionale e internazionale.

Inoltre:

  • L’UE e altri paesi sviluppati continueranno a sostenere l’azione per il clima per ridurre le emissioni e migliorare la resilienza agli impatti dei cambiamenti climatici nei paesi in via di sviluppo.
  • Altri paesi sono invitati a fornire o a continuare a fornire tale sostegno su base volontaria.
  • I paesi sviluppati intendono mantenere il loro obiettivo complessivo attuale di mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 e di estendere tale periodo fino al 2025. Dopo questo periodo verrà stabilito un nuovo obiettivo più consistente. (Fonte: Dopo un dibattito acceso che ha praticamente diviso in due la Casa Bianca, ha vinto la linea dei conservatori capitanati da Scott Pruitt, l’amico dei petrolieri diventato numero uno dell’Agenzia per la protezione ambientale americana (Epa), e dallo stratega conservatore Steve Bannon. (Fonte:  https://ec.europa.eu/clima/policies/international/negotiations/paris_it)

Sconfitti invece sono stati Gary Cohn, l’ex executive di Goldman Sachs diventato capo degli esperti economici della Casa Bianca e Rex Tillerson, segretario di Stato nonché ex ceo del colosso petrolifero Exxon mobil (che per altro voleva il rispetto dell’accordo sul clima).

Tra gli sconfitti anche il numero uno di Tesla, Elon Musk, il quale ha ribadito che potrebbe uscire dal team presidenziale che si occupa dei cambiamenti climatici.

Alla fine è prevalsa insomma la linea dura e pazienza se gran parte del mondo imprenditoriale, da Wall Street alla Silicon Valley, non la pensa così, (compresi i giganti petroliferi come Exxon Mobil, Chevron e Bp).

Il risultato per la Casa Bianca è che quell’accordo non è in linea con il principio faro dell’amministrazione Trump, quello dell”America First’, danneggiando l’economia americana e ostacolando la creazione di nuovi posti di lavoro negli Usa.

E’ un accordo che “impone dei costi in anticipo sugli americani a danno dell’economia e della crescita del lavoro, mentre strappa impegni insignificanti da altri Paesi, come la Cina”.

Se gli Usa rispettassero i termini dell’accordo, l’economia americana perderebbe 3mila miliardi di dollari nel suo pil nei prossimi decenni, secondo Trump. Il presidente ha assicurato che con la sua amministrazione gli Usa saranno “il Paese più pulito e ambientalista della terra, avremo l’aria più pulita, ‘acqua più pulita, saremo ecologisti ma non metteremo fuori mercato le nostre aziende e cresceremo rapidamente”. “Lavoreremo perchè gli Usa siano leader delle politiche ambientali – ha aggiunto – ma con oneri ugualmente divisi tra le nazioni di tutto il mondo”.

Il ‘no’ di Trump, comunque, di per sé non basta a far saltare l’accordo raggiunto due anni fa sotto l’egida delle Nazioni Unite. La Cina, che proprio Obama aveva convinto ad aderire con entusiasmo, ha assicurato che andrà avanti con l’Europa sugli obiettivi di riduzione delle emissioni inquinanti. E’ proprio dall’Unione europea che arrivano le reazioni più accese: Francia, Germania e Italia, con una nota congiunta hanno espresso “il rammarico per la scelta degli Usa”.

I tre paesi sottolineano di “considerare la spinta generata a Parigi nel dicembre 2015 irreversibile”.

Un concetto che lo stesso presidente francese Emmanuel Macron avrebbe ribadito al telefono a Trump, mentre parlando in pubblico dall’Eliseo, il presidente francese ha poi rivolto un appello agli scienziati americani delusi, riadattando il celebre slogan di Trump con una formula diversa:

“Make our planet great again”.

Il vero terreno di scontro politico del prossimo decennio si giocherà su chi continuerà a sostenere una visione pseudo ecologista che però non arretra dal mercato dei combustibili fossili e chi invece investirà nello sviluppo di risorse realmente sostenibili, in maniera concreta ed efficace.

La politica ha un ruolo di primo piano in questo scenario ma il mondo delle imprese e dei players internazionali non è da meno. Da tempo si discute di come l’economia debba reinventarsi ed entrare finalmente in una fase ecosostenibile ma è stato fatto ancora poco. Il capitalismo non muore perché innova e il carbone, oggettivamente non può salvare un sistema che necessita di rilancio e novità.

Se battaglia ci sarà, questa è solo appena cominciata…