Sconosciuta competitività

“Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli.

È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di denaro.

Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, abbellire le sedi, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno.

Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritrarre spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente con altri impieghi.”

Così scriveva Luigi Einaudi, il secondo Presidente della Repubblica italiana, un uomo che ha conosciuto un’Italia diversa da quella che conosciamo noi oggi.

L’Italia che conosciamo noi è infatti un’Italia confusa, alla disperata ricerca di leader e valori, è un’Italia in balìa di profondi processi di rinnovamento globali nei confronti dei quali non sempre sappiamo trovare una risposta, è un’Italia che ha creduto spesso di poter aspettare perché era prima e questo primato nessuno glielo avrebbe sottratto ma è soprattutto un Italia che continua a fare confusione e a usare la parole in maniera approssimativa.

Le aziende che non investono costantemente in ricerca e sviluppo ne pagano le conseguenze perché il mercato non ti aspetta e se, in altre parole, l’Italia vanta ancora eccellenze in ambito industriale e artigianale non significa che queste potranno “andare avanti da sole”, a prescindere.

Scuola, università, mondo politico e sindacale sono solo alcuni dei sistemi sociali che hanno commesso il fatale errore di abdicare al sano principio della competitività e soprattutto al principio per cui fare rete fosse fondamentale per promuoversi all’estero.

Non per errore, le parole sprecate, (anche e soprattutto a proposito del tema alternanza scuola-lavoro in questi giorni), si rivelano essere in effetti ormai troppe.
Superato dunque il fatto per cui la sfida tra professori e teorici oggi si gioca su chi è più impegnato nel sostegno a questa necessità sempre più attuale, cosa resta? Una qualche strategia?
E superate, quindi, le parole bellissime a proposito della mancanza di un piano, di un complesso di riforme dedicato a rafforzare l’esperienza professionale durante gli anni di studio, come possono  rivelarsi appunto utili le parole senza una coerente strategia capace di abbracciare il tutto?

Sì, siamo d’accordo sulla necessità di accendere passioni e talenti ma questi possono davvero essere accesi se non garantiamo anche a chi ha le possibilità ma non i mezzi pratici di provarci?