Il tempo delle decisioni

Ci sono  un paio di domande che continuano ad ossessionare da anni i ricercatori, i politici e gli economisti di tutto il mondo: come sarebbero l’economia e la società oggi se non avessimo conosciuto le rivoluzioni neoliberiste degli anni ’80?

E quindi: sarebbe ugualmente scoppiata la crisi dei mutui subprime nel 2008? (Crisi di cui ancora paghiamo le conseguenze…)

Non è facile trovare una risposta a queste domande e probabilmente è impossibile se consideriamo che la storia non può assolutamente scriversi con i “se”.

E’ tuttavia sicuramente più semplice rispondere alle seguenti domande: perché in Italia non abbiamo mai visto affermarsi un’autentica cultura liberale e liberista?

Perché non siamo ancora in grado di affrontare con serenità e serietà tematiche come liberalizzazione, privatizzazione, concorrenza e appunto libero mercato?

Spesso ignoriamo (o fingiamo di ignorare) che una delle prime vittime della crisi socio-economica degli ultimi anni è stata proprio la fiducia nel libero mercato.

Eppure, il libero mercato libero da lobby, monopoli, conflitti di interessi resta il migliore dei sistemi possibili, l’unica risposta davvero capace di premiare il merito, l’iniziativa, l’impegno.

L’unica risposta, in definitiva, capace di garantire ricchezza concreta e stabile.

La politica italiana non ha tuttavia mai veramente espresso una cultura e un’alternativa realmente vicina al mondo delle imprese e dei lavoratori e questo anche perché l’Italia ha infatti visto negli anni della cosiddetta “Prima repubblica” affermarsi il potere della Democrazia Cristiana e non di un partito in termini assoluti liberale.

Ma per comprendere la nostra storia e il motivo per il quale la D.C. è assurta al rango di baluardo contro il comunismo, in Italia, dobbiamo guardare con attenzione alla storia appunto del nostro paese e al contesto geopolitico nel quale si inseriva ai tempi della Guerra fredda.

La D.C. è stata in effetti fino alla caduta del muro di Berlino l’unico punto di riferimento di stampo “occidentale” alternativo al mondo comunista e questo ha comportato altresì una resistenza in molti momenti logorante che ha visto la stessa D.C. cercare addirittura l’alleanza con i socialisti guidati da Bettino Craxi negli anni ’80.

In Italia, in definitiva, non abbiamo mai avuto un’effettiva alternanza tra forze politiche di destra di stampo liberale e forze di sinistra, come nel Regno Unito e questo possiamo ritenere abbiamo comportato perciò numerose mancanze politiche, sociali e soprattutto economiche che ancora in parte ci pregiudicano.

Con la “discesa in campo” di Silvio Berlusconi nel 1994 si è cercato di rompere con il passato e di proporre agli italiani una rivoluzione, una “rivoluzione liberale” che tuttavia non è mai del tutto partita.

Ma come mai?

Non è possibile trovare una sola risposta alla domanda di cui sopra, le ragioni dell’insuccesso berlusconiano sono infatti numerose e non sono tutte direttamente imputabili a Berlusconi.

Quando in effetti il “Cavaliere” fondò Forza Italia cercò di rivoluzionare il mondo politico innovandone il linguaggio e la struttura, per dimenticare il cosiddetto “teatrino della politica” ritenne opportuno suggerire che uomini e donne di buona volontà, provenienti prevalentemente dal mondo del lavoro, dell’impresa e della cultura, rinunciassero alle loro tradizionali occupazioni per impegnarsi in modo onesto e disinteressato alla cosa pubblica ma malgrado tutti i suoi sforzi, egli ha fallito.

Inizialmente l’innovazione berlusconiana sembrò di fatto funzionare ma gradualmente, soprattutto a livello territoriale, i politici di professione, figli della cultura politica che aveva dominato l’Italia per quaranta anni tornarono ben presto a influenzare la scena impedendo quindi la realizzazione di importanti riforme strutturali di cui l’Italia ancora oggi sente la necessità.

Certo, le mancate riforme non sono una responsabilità solo di una borghesia poco ambiziosa ma si è comunque perso tempo sotto diversi punti di vista, si è rinunciato ad un’innovazione massiccia, radicale e profonda preferendo alla competizione un presente noioso e privo di soddisfazioni e questo e poco ma di certo sicuro.

Tuttavia il termine “neoliberismo” ha gradualmente assunto negli anni il connotato che fino a qualche anno fa era il termine “fascismo”: un connotato purtroppo buono per tutti gli usi quando bisogna attaccare qualcosa e trovare allora un capro espiatorio.

Ora, che questa storia abbia stancato non solo chi vorrebbe approfondire meglio il significato della parola “neoliberismo”, ma tutti coloro che aspettano da anni dai policy maker risposte concrete e convincenti è evidente e se consideriamo un paese abituato alla stagnazione, competizione e imprese serie e qualificate disposte ad investire non sarebbero decisamente sgradite soprattutto perché aiuterebbero a creare posti di lavoro.

C’è però da dire, ormai, che oggi il dibattito non può più essere sostenuto esclusivamente solo tra un fronte conservatore e un fronte riformista e non già perché ai cittadini, agli elettori, ai lavoratori tutto questo non interessa più ma anche perché il vero dibattito, ormai, sembra non poter fare a meno di riguardare chi crede che lo Stato possa continuare a risolvere da solo tutti i problemi della nostra vita e chi invece ha ben compreso che l’unica risposta alla crisi economica, sociale e morale che stiamo attraversando si trovi dentro ognuno di noi.

Ricordo con piacere l’insegnamento di una persona a me molto cara e vicina, le sue parole a proposito del fatto che il compito di un moderno educatore non è quello di disboscare giungle, ma di irrigare deserti; ricordo altresì che la nostra società è ad un punto di svolta, un momento in cui le strutture che hanno determinato la storia fino ad oggi non sono più oggettivamente in grado di rispondere ai problemi di un mondo che cambia troppo rapidamente, ricordo che partiti, sindacati, scuole, università, apparati pubblici sono strutture da reinventare attraverso una rivoluzione decisiva che passa prima di tutto dal nostro approccio mentale nei confronti della realtà e ricordo infine che l’educazione si ritrova a giocare un ruolo fondamentale nel processo di definizione di coscienze autonome.

Certo, nessuno può aspettarsi ora, in conclusione, un cambiamento rapido dell’animo umano, ma tutti, (spero) possiamo però aspettarci di cominciare un percorso che gradualmente consenta di rimettere al centro di numerose relazioni valori come l’impegno per il prossimo, il lavoro, la condivisione e lo sviluppo sostenibile.