Il conte di Montecristo
Riordinando il mio archivio ho ritrovato un tema che scrissi nel novembre del 2011 quando frequentavo il quarto anno del liceo. Il tema in questione fu scritto dopo aver letto “Il conte di Montecristo” ed è quindi una recensione probabilmente insolita per un ragazzo di diciassette anni…
La ripropongo qui di seguito (senza correzioni):
“Quando mi capitò tra le mani “Il conte di Montecristo”, rimasi prima di ogni cosa colpito dalla sua immensa voluminosità.
La mia “caccia” era cominciata quando una mia carissima amica, cercando il libro omonimo tra i miei gioielli letterari, si fosse meravigliata della sua ingiustificabile assenza.
Un po’ per orgoglio e un po’ per curiosità, mi accinsi quindi a braccarlo nelle tane culturali dove immaginavo potesse nascondersi… lo trovai infine una deliziosa mattina di giugno, poco prima di una roventissima estate che ricorderò tuttavia come una delle più belle della mia vita.
Come dicevo, la maestosità del libro in questione mi colpì al cuore, tuttavia però non mi spaventai minimamente: accettai la sfida senza riserbo e ancora prima di presentarlo alla mia amica Silvia, lo divorai con sincera avidità.
Ciò che rende “Il conte di Montecristo” unico nel suo genere, ritengo che sia la sua sottile ambiguità lessico-filosofica. Mi spiego meglio.
Umberto Eco descrive il capolavoro con queste parole: “Uno dei romanzi più appassionanti che siano mai stati scritti e d’altra parte uno dei romanzi più mal scritti di tutti i tempi e le letterature.”
Difatti, il suo ricco testo scappa da tutte le parti: carico di svarioni, ripetitivo, talvolta monotono, apre divagazioni interessanti senza chiuderle del tutto solo perché la sintassi non regge, è meccanico, e oserei dire goffo.
Se si usa considerare Dumas un genio, com’è stato dunque possibile che la critica non abbia tenuto conto di questi gravissimi errori?
Per due motivi sostanzialmente: prima di tutto perché l’autore, costretto a scrivere per denaro (veniva pagato non mi ricordo quanto a riga) è stato in un certo senso “compreso” e “perdonato”, in secondo luogo perché, volenti o nolenti, non si può rinnegare il peso (letterario) che la figura di Edmond Dantès ebbe sul romanzo contemporaneo.
Ma chi è costui? E da dove viene?
Le vicende del romanzo hanno inizio quando Edmond per l’appunto, su ordine del defunto capitano del mercantile su cui lavora, raggiunge l’isola d’Elba per incontrare Napoleone, esiliato dopo la tremenda sconfitta di Lipsia.
Qui, riceve una lettera che dovrà inviare ad un fedele bonapartista di nome Noirtier Villefort.
Ignaro del gigantesco complotto, giunge intanto a Marsiglia, dove finalmente può dopo tanti mesi riabbracciare il padre e la fidanzata Mercedes; sono momenti critici e concitati: nulla può farci sospettare il complotto ordito da Danglars, Mondego e Caderousse per denunciare e distruggere l’ingenuo protagonista.
Viene arrestato a metà del nono capitolo e condotto dal giovane Villefort, che non avendo intenzione di distruggere il suo onore, brucia la lettera del “lupo di Corsica” per il padre Noirtier, condannando conseguentemente Edmond all’arresto.
Abbandonato da tutti, muore psicologicamente giorno dopo giorno nel silenzio del castello d’If, dove è stato rinchiuso, apparentemente senza ragione…
Dopo diversi anni ha modo di conoscere segretamente un frate, Faria, con il quale instaurerà una relazione culturale e umana molto forte.
Gradualmente, riacquista così fiducia e spinto dal racconto che vedrebbe l’isola di Montecristo accogliere immense fortune nelle sue grotte, decide insieme al vecchio amico di evadere.
La morte inaspettata di Faria, lo costringerà però ad accelerare l’evasione: non potendo concludere da solo il tunnel che insieme avevano iniziato a scavare, si finge morto e nascondendosi nel sacco dove sarebbe dovuto essere riposto il corpo del frate, si fa gettare a mare.
Pochi mesi dopo, raggiunge Montecristo, dove quasi inaspettatamente, trova il tesoro tanto agognato che gli consentirà di scalare i vertici della società europea.
Morto Edmondo, ormai vediamo così nascere un nuovo, emblematico personaggio: un conte sinistro, freddo e spietato disposto a tutto pur di riconquistare ciò che ha miseramente perduto; della giustizia fa una ragione e di se stesso fa uno strumento nelle mani di Dio…
Ed è proprio Dio, attenzione, la figura che non possiamo in alcun modo tralasciare: Montecristo, infatti, nella sua personale parabola biografica, scruta l’intervento provvidenziale di una forza soprannaturale, la quale agendo costantemente equilibra le forze del mondo.
“Il Signore sostiene quelli che vacillano e rialza chiunque è caduto”, questo lapidario salmo è il centoquarantaquattresimo dell’Antico Testamento e pare inevitabilmente legato all’azione (anche violenta) del nostro protagonista, preso e strappato da un sudario sporco e povero ed innalzato, proprio come Cristo dopo la Resurrezione al Cielo.
Riponendo ragionevolmente la sua missione al servizio dei più deboli, dopo ben trent’anni di attesa, piani e strategie calcolate quasi matematicamente, giustizia viene fatta: Caderousse (nonostante Montecristo lo perdoni) muore miseramente, Danglars, divenuto nel frattempo banchiere, si suicida per una bancarotta causata volontariamente dal determinato conte, Villefort impazzisce e Mondego perde sia la famiglia (tra cui Mercedes, che aveva sposato dopo l’arresto di Edmond) che il titolo di conte.
Non sappiamo che fine faccia alla fine del libro Montecristo, e questo, personalmente, contribuisce fortemente ad arricchire le suggestioni e i sogni che ci vedono immaginarlo in nuove avventure…
E mentre, dopo 915 pagine, la sua barca salpa verso oriente, noi rimaniamo a terra, proprio sull’isola del conte, in compagnia di due giovani innamorati che proprio Edmond aiuta a sposarsi…
Rimaniamo insomma lì, immobili, e come il protagonista, lentamente cambiamo.
Cambiamo perché l’ambiguità che vede Montecristo da un lato amare e dall’altro odiare spudoratamente, ci travolge, ci rapisce e ci conduce al punto di accettare (e amare) la vita come una lotta combattuta contro tutti quelli che vorrebbero vederci morire nelle segrete del castello d’If…
Forse perché moralmente ci sono stato nel castello d’If, ho sentito grandissime emozioni leggendo che soggettivamente rimane, al di là di tutti gli errori, il più bel romanzo che Dumas abbia mai scritto.
Come Dantès anch’io sono stato triste, e anch’io nella mia tristezza ho visto la ragione per non mollare:
la volontà di riscattarsi.
Capire, morire e poi rinascere sono insomma quei leitmotiv poetici necessari su cui investendo, ho capito la complessità dell’immenso: nel “Montecristo”, come nella vita c’è amore, vendetta che si contrappone a giustizia, vi sono la ragione e la follia, il tradimento, il sopruso, l’amicizia, l’avidità, la voglia di resistere e il coraggio di soccombere con amore, nell’amore.
Per concludere, “Montecristo” è quindi una gigantesca macchinazione psicologica che basa sulla vastità la sua potenza devastatrice: nel suo fascino mistico, in cui la presenza ultraterrena vaga silenziosamente, si nasconde pertanto il sogno di vincere le proprie debolezze, e così capire i propri errori e le proprie mancanze.”