Il conte di Montecristo (quattordici anni dopo)…

Scoprire che esistono “le bimbe di Edmond Dantès” quattordici anni dopo la prima lettura del “Conte di Montecristo” non suscita in me nessuna particolare emozione, salvo quella che mi costringe a ricordare il Joker interpretato da Heath Ledger quando si vantava di essere semplicemente “in anticipo sul percorso”.

La verità è che non sono stupito del successo che in queste ore sta riscontrando la serie televisiva in onda su Rai 1 ogni lunedì sera dal giorno 13 né tantomeno sono sorpreso dal fatto che la serie in questione stia dividendo i conoscitori del romanzo; ciò che in effetti mi sorprende (positivamente) non è solo la capacità della storia in questione di riuscire a conquistare i cuori delle persone quasi due secoli dopo la sua prima pubblicazione ma di riuscire altresì a raccontare sentimenti diversi ogni volta.

In altre parole, (e non è un caso che io abbia avuto il desiderio di leggere il romanzo in oggetto altre due volte dopo il 2011), sono felice di notare che malgrado l’apatia dell’oggi, “Il conte di Montecristo” sia capace di parlare a chiunque e a qualunque età, proprio d’altronde come tutte le grandi storie…

Quattordici anni dopo la prima lettura del testo e tredici anni dopo aver scritto un tema a proposito della mia straordinaria esperienza di lettura, vedere quindi di nuovo sul piccolo schermo Edmond Dantès mi ha ispirato a rileggere alcuni passaggi del libro e a ripensare ad alcuni aspetti sui quali finora non avevo ancora pienamente riflettuto.

A prescindere dal giudizio estetico e tecnico della serie che vede Sam Claflin nei panni del conte, (giudizio che senz’altro arriverà), incontrare di nuovo il conte di Montecristo mi ha perciò costretto a fare i conti con il tema del perdono, tema che, non di certo può essere semplificato.

In effetti, in tempi in cui si guardano le storie con leggerezza e presunzione ideologica, mi sorprende non poco che una storia quasi interamente fondata sul desiderio di vendetta come quella del conte di Montecristo non susciti le osservazioni critiche di chi ritiene il perdono l’unico mezzo attraverso il quale (ri)tornare all’amore.

Ora, pur essendo certamente vero che una storia come quella di Edmond Dantès è una storia di fantasia non credo sia comunque meno interessante tentare anche in questa sede, come già anticipato, una riflessione capace di trascendere il confine tra il vero e il fittizio.

Se, infatti, il mito era un tempo motivo di meditazione e ispirazione, domandarsi perché, oggi, una storia non possa essere ugualmente motivo di meditazione e ispirazione credo sia opportuno; allo stesso, domandarsi se si possa riflettere sul significato del perdono grazie a una storia come quella del conte di Montecristo (la quale racconta appunto del rapporto dell’uomo con il tema del perdono) credo sia inevitabile.

Di conseguenza, sebbene la storia del giovane marinaio che divenne il conte di Montecristo sia ormai nota a tutti, desidero ricordare di essa il valore che ha la rinuncia al perdono e il conseguente convincimento che Dio possa esercitare la giustizia proprio per mezzo di chi quella giustizia la domanda.

Insomma, la ragione per cui oggi, dopo tanti anni, “Il conte di Montecristo” bisbiglia ancora al mio animo qualcosa di divergente dipende dal fatto che in un tempo nel quale troppo facilmente si pretende di dispensare una bontà fittizia e il perdono, esso vinca ancora.

Come accaduto a tante grandi opere, ammetto non senza vanità che forse, chi potrebbe criticare il romanzo di Alexandre Dumas non abbia mai avuto il coraggio di affrontare la sua voluminosità ma a prescindere da questo credo che in realtà nessuno abbia ancora osato una critica al romanzo perché tutto sommato si pretende ancora di affrontare la finzione come se fosse solo “finzione”.

Certo, con convinzione e coscienza ribadisco senz’altro che la finzione è certo finzione (anche quando essa è ispirata dalla realtà) ma la finzione parla pur sempre di noi. Se dunque ormai non riusciamo più a interpretare la finzione e a imparare da essa possiamo in breve affermare che non sappiamo più chi siamo e quale significato riconoscere al nostro ruolo, nel nostro tempo?

Non è impresa semplice rispondere alle domande di cui sopra, né tantomeno semplice è rispondere al significato che ha, o dovrebbe avere, il perdono nelle nostre vite; cionondimeno, ritengo tuttavia importante ribadire che in tempi di approssimazione in cui si dispensano troppi consigli e si evita la responsabilità con la convinzione che tanto, dopo, qualcuno perdonerà, bisognerebbe chiedersi cosa significa davvero perdono.

Il perdono non è infatti qualcosa di semplice o di scontato ma in tante culture, come ad esempio la cultura ebraica, dipende altresì da una partecipazione della parte colpevole che si assume a sua volta la responsabilità per quanto accaduto.

Insomma, il perdono non è qualcosa di univoco ma un processo che si realizza in due e se ciò non avviene, se comincia e termina dunque solo nel cuore della parte lesa mi suggerisce nuove riflessioni a proposito del tema dell’amor proprio.

Senza dubbio alcuno, so che non sia facile comprendere in modo pieno il significato del perdono ma può esso alleviare per davvero le ferite dell’animo se come osservato si estingue già nei tentativi di chi ha solo sofferto? A cosa serve, in conclusione, “donarsi” se chi ha perpetuato un’ingiustizia perpetuerebbe ancora quella stessa ingiustizia?