Guerra e pace oggi tra approssimazione e scarsa ragionevolezza

Poco prima della fine del mese di novembre, il generale dell’Esercito italiano Carmine Masiello ha dichiarato ad un evento tenutosi a Bologna che “Dobbiamo parlare di guerra e non di apericena”.

Le ragioni del soldato, grosso modo ignorate dai media trovano tuttavia un riscontro crescente in seno alla politica e sebbene esse siano comprensibili sotto alcuni punti di vista (soprattutto se si tiene in considerazione il ruolo di chi le ha pronunciate) da un punto di vista squisitamente razionale non sono ancora state ampiamente affrontate.

Di conseguenza, affrettarsi ancora una volta a ritenere opportuni tutti gli investimenti nel settore della difesa che qualcuno sostiene senza condizioni credo sia ancora una volta inopportuno e non già perché tardivi rispetto a previsioni di cui tanto si è già discusso ma perché non ben motivati.

In altre parole, chi anche in queste ore come il generale Masiello ritiene necessario investire sempre di più in armi e educare di conseguenza i giovani alla guerra più che ricordarmi Winston Churchill negli anni ’30 del Ventesimo secolo mi ricorda la contraddizione di quel boomer seduto al bar che non ha mai visto una guerra, durante il servizio di leva tutto sommato si è divertito e pretende quindi di insegnare “le buone maniere” ai giovani con i “sani di princìpi di una volta”.

Certo, “una volta” molte cose erano migliori, forse eccessive ma non si può negare che ci fosse maggiore attenzione nei confronti di alcuni valori interessanti che oggi sono spesso fraintesi ma “una volta” è appunto “una volta” e non è prudente ritenere a prescindere migliore un’epoca che non c’è più rispetto alla nostra perché ciò significherebbe prestare il fianco a un pericoloso bias.

Per comprendere come e perché sia sciagurato e imprudente assecondare senza cognizione di causa una cultura bellica ispirata non si sa ancora bene da cosa, credo sia dunque opportuno ribadire alcuni presupposti ispirati dallo studio della storia.

In primo luogo, in virtù di quanto appena scritto, è opportuno ribadire di conseguenza anche in questa sede che la storia non è una scienza esatta, non risponde a regole precise né tantomeno a criteri prevedibili; in secondo luogo, è altresì opportuno ribadire con convinzione non diversa che lo studio della storia non può dipendere dall’umore del momento né tantomeno da fattori ideologici bensì da criteri critici.

In parole povere, la storia “non si ripete” per forza, le analogie che spesso osserviamo non sempre dipendono dagli stessi fattori perché ogni fenomeno è uguale a sé stesso.

Certo, le analogie esistono, così come esistono numerosi punti di contatto tra persone e fatti ma la ragionevolezza che ispira lo studio del passato è un criterio per niente casuale, bensì un criterio utile alla comprensione della complessità intrinseca dell’attività umana.

Insomma, checché ne dicano i generali veri e quelli finti che amano giocare a “Call of Duty”, Vladimir Putin non è Adolf Hitler e la Russia di oggi non è la Germania nazionalsocialista e noi, che non siamo gli alleati che devono scegliere se essere Chamberlain o appunto Churchill, ci dimentichiamo piuttosto che cosa ha significato la guerra per chi ne ha parlato a sproposito nei cinquant’anni che hanno preceduto il primo conflitto mondiale.

Non senza spirito critico, ricordo in effetti anche in questa sede non solo le evidenti differenze tra un paese antisemita e dichiaratamente ostile come la Germania di Hitler e la Russia di oggi, (paese senza dubbio non liberale ma più vicino a ciò che è stata l’Unione sovietica) ma anche infine la complessità della situazione geopolitica internazionale, le caratteristiche intrinseche dell’era atomica nella quale tutt’ora viviamo e, in conclusione, le relative difficoltà che appartengono ai singoli scenari coinvolti.

È dunque opportuno riconoscere perciò che tra Mario Draghi che alla Nazioni Unite non dimostrò coerenza ma scarsa conoscenza dei fatti, i suoi seguaci per cui  “Mario Draghi ha sempre ragione” e quelli per cui anche la Russia ha sempre le sue motivazioni, scegliere una dimensione critica, capace cioè di distinguersi e di riconoscersi tra “bene” e “male” potrebbe essere utile alla storia e a chi, insisto, piuttosto che riconoscersi in chi chiedeva la guerra senza averla mai combattuta nel 1914 preferisce premiarsi con medaglie di cartone.

Tenere quindi conto del fatto che sì, il mondo sta cambiando e che il 2025 sarà un anno difficile per paesi come il nostro e la Germania non è solo importante ma fondamentale dal momento che pensare che la guerra sia l’unica soluzione mi ricorda senza dubbio che l’essere umano non è allora migliore di ciò che pretende di essere è che malgrado tutto è ancora vittima delle sue più misere pulsioni biologiche.

Non escludo che qualcuno di fronte alla necessità di cambiare suggerirebbe di superarci ma a chi ha così tanto a cuore il transumanesimo domando: come può l’essere umano suggerire al dopo sé stesso sé il “sé stesso” di base ancora dipende così tanto dalla semplicità? In altre parole: come potrebbe l’essere umano programmare il suo futuro se il suo stesso presente è ancora facile?

Molto ha potuto l’uomo grazie alla violenza ma la storia, la quale tuttavia insegna poiché è ragione per iniziare una riflessione, dimostra che il nostro presente, come sostenuto dallo stesso Fritjof Capra ne “Il punto di svolta” può essere un’occasione per migliorarci piuttosto che per accettare le nostre mancanze.

In parole diverse, ma non per questo meno chiare: io credo che una politica diversa e una classe di intellettuali meno asservita ai manuali possano non solo essere più autentici ma ragionare con convinzione e pragmatismo a proposito dei grandi limiti del capitalismo.

Se quindi Germania e Italia, (la quale fornisce componenti all’industria tedesca), si accingono ad affrontare sfide importanti in virtù del fatto che i decenni di benessere dipesi dal gas russo a costo ribassato e da un mercato cinese non competitivo sono finiti, noi dovremmo interrogarci sulle motivazioni per cui sembra servire una guerra a tutti i costi per rivitalizzare un tessuto economico.

Allo stesso modo, se è vero che tanto possiamo come spesso amiamo ripetere, dovremmo chiederci se non sia possibile ritenere valida un’alternativa che vede il futuro non così dipendente dalla difesa.

Chi, in buona sostanza, oltre oceano ritiene a prescindere inevitabile lo scontro e non vuole accordi di nessun genere con la Russia dovrebbe chiedersi: dove possiamo arrivare? E come Occidente, quali valori siamo infatti ancora capaci di valorizzare? Siamo davvero capaci di valorizzare il diritto di parola se tutti coloro che non la pensano come noi sono in automatico definiti “complottisti”? Siamo davvero capaci di valorizzare princìpi come il merito se nei fatti viviamo un’epoca che non incoraggia lo spirito creativo e l’intraprendenza imprenditoriale?

A chi, in breve, vorrebbe che si parlasse più di guerra credo sia opportuno rispondere che sarebbe meglio parlare più di cambiamento (o rivoluzione) giacché ciò che non è più tollerabile è pensare che ai giovani che hanno tante capacità ma pochi mezzi non si possa proporre un’opportunità ma, non a caso, una guerra.