Appunti a proposito della solitudine
Quando penso al fatto che ciò che compone l’86 % della “materia” dell’universo è qualcosa che non riusciamo a identificare o a comprendere, un “qualcosa” che per praticità chiamiamo appunto, anche in questa sede, “materia” e, nello specifico, “materia oscura”, mi domando se abbia senso continuare a studiare.
Allo stesso modo, quando penso all’energia che sembra contribuire a espandere in silenzio e a nostra insaputa ciò che è al di là di noi, (ri)scoprirmi patetico e probabilmente inadeguato si rivela essere solo un punto di partenza.
E’ in effetti proprio nei momenti in cui contemplo la vastità di ciò che non sappiamo che mi ricordo però, (forse paradossalmente), il motivo per cui studiare è importante malgrado possa sembrare privo di senso: è grazie allo studio, ossia alla riflessione, che si matura la consapevolezza di non sapere.
Malgrado la frustrazione, sapere di non sapere e accettare di conseguenza i limiti dentro cui spazio e tempo ci costringono è quindi importante e non semplicemente perché è, nonostante tutto, un passo verso comunque qualcosa ma perché è prima di ogni cosa un passo fuori da noi stessi.
In altre parole, da tempo cerco di ribadire e apprezzare il valore di una lettura che a sua volta è una conquista intellettuale conseguente, “Il punto di svolta”, ma l’ostinazione con la quale provo a raccontare, ad esempio, quanto sia affascinante il fatto che la luce sia onda e particella nello stesso preciso momento è direttamente proporzionale alla volgare insistenza che pretende qua e là di ridurci a schemi prevedibili e utili alla classificazione.
Io che non ho ormai più molto interesse per quelle dinamiche umane che molti vivono spesso loro malgrado e senza opporre resistenza alcuna, forse dovrei inventare una scusa per dire “basta” ma se lo facessi per davvero sarebbe vano ciò che sono e dunque, la medesima “maledizione” che mi condanna probabilmente a cercare, a contraddirmi e infine a scrivere.
Certo, non avendo più grande interesse per quei compleanni, quei matrimoni, quei “gender reveal party”, quei battesimi e quei luoghi comuni che raccontano in maniera ovvia, forzata, “tanto per” e controvoglia il tempo che passa e le ragioni da cui tutto ha avuto inizio, (compreso gli eventi stessi citati, realizzati non casualmente “tanto per”), potrei limitarmi semplicemente a volgermi da un’altra parte ma dove? Verso quale altrove, di preciso?
La mia solitudine, così come quella di tutti alla fine, ha un nome, un cognome e un volto e non ha scelto come residenza il silenzio effettivo ma il rumore delle folle nelle grandi città, dove tutto si ripete e si rivela banale e uguale a qualcosa di già visto, già criticato ma comunque ancora forte.
La mia solitudine, così come spiegato quella anche degli altri, ha dunque nonostante tutte le mie buone intenzioni, il volto del rifiuto, il volto di chi non ho capito bene perché si convince che le relazioni rispondano a schemi predeterminati (anche se qualche volta si diverte ad affermare che le relazioni sono “fluide” senza sapere perché).
Insomma, la mia solitudine, (esattamente come quella di chiunque) ha il volto di chi ha trent’anni si è già barricato dietro le difese di un gruppo di amici spesso non veri e non vuole fare nuove amicizie perché “non ha tempo”; la mia solitudine, la nostra solitudine, ha il volto inoltre di chi si contraddice, di chi la verità la rifiuta per non soffrire ma poi “va in terapia” con la convinzione che basti ormai quello per stare bene ma la mia solitudine, la quale ribadisco però è anche degli altri, ha tuttavia anche un altro volto ed è forse il più antipatico: è il volto di chi pensa che le cose siano sempre andate così e che il già citato “punto di svolta” sia un sofismo.
E’, in conclusione, triste ammettere che alla mia età, cioè a trent’anni, tutto ci condanni alla vecchiaia (specie nei fine settimana) anche se non siamo ancora vecchi ma ormai i più sono stati costretti ad assomigliarsi, a credere che scherzare sia infantile così come scambiarsi opinioni, consigli e tentare perciò di continuare a crescere insieme ma cosa si può di fronte al dilagare di un pensiero ormai prevedibile? Cosa si può di fronte a chi ripete già dalle scuole elementari un pensiero predeterminato per timore di essere contraddetto? Cosa si può di fronte al timore stesso di un’autorità ormai sterile? Cosa si può di fronte a chi non capisce che il tempo per leggere è possibile come il tempo per le flessioni? Cosa si può di fronte a chi insiste nel non comprendere le potenzialità che ha la creatività? Cosa si può di fronte a una società triste, il cui gelo che mi stringe con crescente livore mi sembra sussurrare parole minacciose? E cosa posso io, non a caso, di fronte agli occhi che cerco e si volgono altrove poiché appunto convinti che la vita sia una mera attività corriva?
All’insipienza generale forse dovrei rispondere anche io con l’altrove, con la convinzione che mi basti alla fine studiare sempre di più anche se “non rende”, anche se significa nascondersi dietro gli dèi o degli esempi invisibili che per fortuna ancora possono ispirare qualcosa ma ciò significherebbe ingannare per davvero la solitudine? O significherebbe piuttosto ingannare un tempo insipido, appunto insipiente e condannarsi ad un inutile silenzio?