Quello che non vogliamo (o non sappiamo) vedere

Io che ritengo le generalizzazioni sciocche e inopportune al punto da considerare patetici anche quei reel che  pretendono di raccontare una situazione sulla base della premessa “ogni maschio bianco, etero e cis si comporta così…”, non posso non considerare sciocchi, inopportuni se non addirittura inutili tutti quei commenti che pretendono di raccontare Donald Trump o Elon Musk in virtù di alcuni luoghi comuni.

In altre parole, a me che le generalizzazioni non piacciono in ogni caso (sì, anche quando riguardano le donne, gli omossessuali e le lesbiche), non posso non provare un sincero imbarazzo per quei commenti a proposito del presunto pericolo oligarchico che rappresenterebbe il fondatore di Tesla e, badate bene, non tanto perché non esista un rischio di natura oligarchica ma perché credere che la politica negli Stati Uniti d’America non fosse condizionata dalle oligarchie prima della vittoria di Donald Trump è sciocco.

Ma “cui prodest”? A chi giova, per davvero, scrivere di “cupi progetti oligarchici”? Agli eletti o agli elettori? Credo a nessuno e ribadisco bene il fatto che ciò dipende non tanto dall’inesistenza o sterilità delle elites, (le “nostre” oligarchie)  ma perché esse non nascono oggi e non moriranno tanto facilmente domani.

Prima della seconda vittoria di Donald Trump, esisteva infatti già un consolidato nucleo di potere in seno alla finanza e alle grandi multinazionali, aveva il volto delle case farmaceutiche, delle aziende  che disboscano la foresta amazzonica, estraggono e commercializzano petrolio, costruiscono e vendono  armi, sfruttano ogni forma di dato e costruiscono covi incantati a Wall Street.

Di conseguenza, pensare che a prescindere dal gioco delle parti sia arrivato anche per i politici il momento di non assecondare ulteriormente luoghi comuni e politiche fondate su slogan semplicistici (giacché appunto essi hanno comunque delle responsabilità nella definizione di un dibattito pubblico maturo) è a mio modesto parere non meno sciocco di chi pensa che Elon Musk possa nuocere alla democrazia meno di Mark Zuckenberg.

Allo stesso modo, pensare che sia necessario riflettere con maggiore impegno a proposito della complessità intrinseca delle questioni in esame è non meno importante dell’accettare che tutto sommato, in gioco, c’è il futuro non solo degli Stati Uniti d’America ma dell’Occidente medesimo.

A prescindere infatti dall’Unione europea, la quale forse in maniera un po’ egocentrica ha pensato subito alle conseguenze sul suo esclusivo futuro dopo la vittoria dei repubblicani, ciò che non vogliamo (o non sappiamo) vedere delle attività di Donald Trump ed Elon Musk è qualcosa che potrebbe (ri)definire l’intera coscienza del mondo a ovest.

Nello specifico, se consideriamo quei legami finanziari che continuano tutt’ora a collegare (indipendentemente dalle differenze formali) le società di Elon Musk a società che hanno al contrario finanziato il partito democratico (Vanguard Group e Blackrock sono infatti tutt’ora soci non solo di Tesla ma delle principali società quotate a Wall Street) risulta evidente che non solo esiste in effetti un’oligarchia che prescinde da Elon Musk ma che la finanza gioca e scommette, in qualche maniera, a priori e conserva un ruolo di riferimento sia con un presidente che con un altro proprio perché gli Stati Uniti d’America sono, ben prima di oggi, un paese il cui capitalismo è per l’appunto ormai oltre la politica.

Se quindi il cinema e il mondo dei fumetti hanno ormai superato il presupposto per cui il villain di turno sia un villain assoluto, un “super cattivo” la cui malvagità è innata (si pensi a “The penguin” ma anche al Joker di Todd Philips o allo stesso Harvey  Dent, “Due facce”, nel film di Christhoper Nolan o nel cartone animato degli anni ’90, “Batman”) perché la politica e chi fa informazione ancora non riesce a confrontarsi con la complessità dei fatti?

Considerare che chi racconta una storia ha maggiori capacità introspettive di chi fa politica o informazione, dovrebbe suggerirci forse che chi fa politica e informazione dovrebbe cambiare mestiere, (ri)considerare i propri pensieri e perciò le proprie parole?

Non da ultimo, se consideriamo che la politica e chi fa informazione ancora pretende di limitarsi a raccontare il potere senza tenere conto di ciò che ha davvero importanza, (indipendentemente dal proprio interesse), dobbiamo altresì tenere a mente che il condizionamento del pensiero dell’elettore sarà sempre più succube dallo stereotipo, dal messaggio semplice e pronto all’uso.

Nondimeno, una cattiva informazione che non tenga conto delle reali implicazioni delle attività di Elon Musk potrebbe impedire o influenzare negativamente lo sviluppo di una riflessione critica a proposito delle implicazioni che possono avere nella società del domani l’Intelligenza Artificiale e la robotica.

Se purtroppo consideriamo già i riflessi ideologici che hanno condizionato il tema dell’ecologia è di fatto (quasi) evidente che la stessa riflessione che riguarderà il nostro rapporto come esseri umani con una società sempre più tecnologica sarà purtroppo e non a caso condizionata dal fatto che “Tizio è repubblicano e dunque cattivo” e “Sempronio democratico e infine buono”; ossia da un pensiero sempre più banale e in contraddizione con il nostro essere esseri umani: creature complesse e tali proprio perché hanno imparato a riflettere.

Insomma, tra una presunta (e comunque possibile) società ipertecnologica dove tutto sembra possibile e una società comunque condizionata dalla tecnologia ma dove prevale il presupposto della policy e della regolamentazione, come a Bruxelles, può esistere un’alternativa? Una già citata “quarta dimensione”, un “punto di svolta”? Una situazione ipotetica capace di conciliare uno sviluppo tecnologico, una regolamentazione precisa, non asfissiante e soprattutto flessibile con una componente umanistica degna di chi sa come sfruttare consapevolmente una tecnologia?