Quando ad essere tossico è il femminismo…
Non ho mai provato particolare affetto per Michela Murgia, né tantomeno per Roberto Saviano o Chiara Valerio.
Credo infatti che Michela Murgia, esattamente come Roberto Saviano e Chiara Valerio, abbia finto di essere divergente (esattamente come tutt’ora fingono di essere divergenti Roberto Saviano e Chiara Valerio).
Se Michela Murgia avesse voluto veramente sfidare le convenzioni e le maggioranze, a suo tempo avrebbe appunto detto “no” al “Green pass”, (esattamente come i migliori esponenti della sua famiglia queer) ma nulla disse a proposito di una delle peggiori discriminazioni della storia repubblicana, tacque e si rese di fatto complice di un sistema perverso che asseconda l’omologazione e il pensiero unico.
Chi ha visto che cosa può fare il cancro non può non provare un sincero dispiacere nei confronti delle persone che amano Michela Murgia ma a prescindere da quella naturale e indiscutibile empatia che trova un senso di fronte al dolore che un “alieno” lascia dietro di sé, non è tuttavia possibile ignorare l’eredità culturale che invece lascia Michela Murgia, un’eredità culturale che a tratti ha conosciuto i tratti più estremi del confronto tra uomini e donne.
Tempo fa, la nota scrittrice ebbe di fatto a dire che “Nascere maschi in un sistema maschilista è un po’ come essere figli maschi di un boss mafioso” perché, in qualche modo, nella sua visione delle cose esisteva un qualche perverso collegamento tra la legittimazione della famiglia diciamo “tradizionale” e la mafia.
Ora, la ragione delle affermazioni che, naturalmente, assecondò anche Roberto Saviano, trovarono evidentemente spazio solo sulla base di una visione ideologica fondata sulla convinzione dogmatica, appunto, per cui esiste una famiglia “migliore” di un’altra; tuttavia, prescindendo dall’ideologia e dal fatto che gran parte del pensiero oggi si giustifica grazie ad essa per ragioni di mercato, non si può non ammettere il fatto che non si può combattere una discriminazione ammettendo che chi nasce maschio è mafioso.
Allo stesso modo, come accennato, come si può pretendere di pensare che Michela Murgia si sia battuta contro le discriminazioni dal momento che tacque quando il governo Draghi assecondò una vergognosa “caccia alle streghe” contro degli inermi cittadini “colpevoli” di aver semplicemente scelto di non vaccinarsi?
Il suo silenzio, come quello di molti altri intellettuali è stato effettivamente assordante quando si imponeva uno strumento divisivo e discriminatorio come il “Green pass” e ciò, purtroppo, non solo suggerisce di diffidare dallo spirito del nostro presente ma anche di accettare il fatto che Michela Murgia e la sua famiglia queer temessero davvero di non poter più scrivere per “la Repubblica”.
In ogni caso, continuare ad assecondare una visione dell’essere dove uomini e donne sono in perenne contrasto significa continuare ad assecondare una lotta commerciale che pretende di abbattere le identità e di destrutturare gli individui davanti al potere.
La medesima critica poc’anzi condivisa si può proporre perciò osservando ciò che è “Barbie”, l’ultimo film con Margot Robbie: una geniale operazione di marketing pensata per svecchiare un prodotto e prendere in giro i maschi.
Tutto sommato, prendere in giro e prendersi in giro è divertente ma continuare a vendere messaggi alla Chiara Ferragni secondo cui “se vuoi puoi” perché è tutta colpa dei maschi se le donne non si sentono abbastanza e quindi devono essere abbattuti è stomachevole, sessista e stupido, (soprattutto perché Chiara Ferragni deve gran parte del proprio successo ad un uomo di cui si parla troppo poco, Riccardo Pozzoli).
Certo, “Barbie” può essere tante cose e può anche essere un’occasione per divertirsi ma senza ombra di dubbio è stata una grande occasione.
Pur non avendo il bisogno di prendere sul serio ciò che è il film con Margot Robbie, la multinazionale Mattel ha fatto grazie al film “Barbie” un’operazione di marketing geniale: ha dato cioè una spolverata di femminismo ad una bambola che rappresentava da sempre lo stereotipo tossico di donna perfetta, ha giustificato un femminismo all’americana senza denti, assolutamente innocuo e che mette d’accordo tutti sotto il vessillo del politicamente corretto; in altre parole: Mattel ha concluso una perfetta operazione di marketing feminism-friendly, da non prendere così tanto sul serio, un’operazione di marketing in linea con ciò che è il presente: un presente di plastica contradditorio, spesso ipocrita e fondato su conflitti inutili e strumentali al potere.
Sicuramente, gli uomini, (anzi, i maschi) dovrebbero fare molto per tornare a dare un senso al proprio ruolo in una società perversa che li umilia con soddisfazione e tanto per cominciare dovrebbero tornare a far valere quei valori di gentilezza e di empatia che contraddistinguono un vero uomo ma tutti, presto o tardi, dovremmo accettare il fatto che a prescindere dalle patetiche divisioni propinateci dal cinema e dalla letteratura esiste un sistema di potere che preferisce inebetirci piuttosto che responsabilizzarci.
In altre parole, ammettere che esiste un femminismo tossico che non ha nulla in comune con quelle sacrosante battaglie che dovrebbero impegnare, non a caso, tutti, contro la discriminazione e ciò che è il dominio del Nulla sulle nostre coscienze non credo sia “politicamente scorretto”, anzi.
Combatterlo, combattere cioè il femminismo tossico poc’anzi descritto, può essere importante perciò non solo per i maschi ma per le stesse donne perché significa impegnarsi non solo contro un’oggettiva deformazione di ciò che è, (o è stato) il femminismo ma contro una manovra ideata per umiliare e sottomettere tutti, a prescindere dal colore della pelle e dal sesso.