Storia di un viaggio di fine estate: come nasce e perché sopravvive lo Stato

Dopo aver introdotto le ragioni per cui Pensiero divergente ha gradualmente assunto uno spirito libertario (e un po’ anarchico) e dopo aver compreso le ragioni della profonda debolezza sistemica della democrazia in Italia (e in Occidente), cerchiamo ora di capire come nasce e perché sopravvive lo Stato.

Avventurarci sul terreno della filosofia politica ci permetterà quindi di capire, (forse), quale significato abbia avuto la frase “uscire dal cerchio” ma soprattutto ci permetterà di capire come, in concreto, il pensiero anarchico neghi la necessità dello Stato.

Come ogni altro settore della filosofia, la filosofia politica analizza le argomentazioni, (in modo particolare quelle che affermano di fondarsi sui fatti) e inevitabilmente ci impone pertanto di affrontare già alcune domande fondamentali: quali poteri dovrebbe avere lo Stato sui cittadini? E quali diritti, di riflesso, dovrebbero riservarsi i cittadini?

Per tentare di rispondere a questi fondamentali dilemmi, (occorre precisarlo fin da subito), bisognerebbe partire da una necessaria premessa sulla natura umana, ossia: i poteri statali dovrebbero essere ampi perché altrimenti gli esseri umani sarebbero sempre in guerra fra loro? Oppure, presumendo che la natura umana sia più collaborativa, si potrebbe elaborare una teoria meno pessimistica?

Potrà sembrare riduttivo (e probabilmente) inutile cercare di capire il senso del conflitto tra una visione pessimista dell’essere umano e una visione, a contrariis, più fiduciosa delle sue capacità ma è da questa considerazione così fondamentale che occorre partire per capire il reale valore che può avere il pensiero anarchico.

Gli esseri umani sono perciò animali sociali o no?

Gli esseri umani si aggregano in società istintivamente o per necessità? Si può paragonare la società umana a quelle create dagli animali, diciamo, politici (api e formiche)

In polemica con la tradizionale tesi aristotelica che vedeva nella società il risultato di un mero istinto primordiale (“l’uomo è per natura un animale sociale”, primo libro della “Politica” aristotelica), Thomas Hobbes (1588-1679) sostiene che nel genere umano, a differenza degli animali, non esiste alcuna forma di socialità istintiva.

Fra gli individui non esiste perciò nessuna forma di amore naturale, ma solo un’esplosiva miscela di timore e di bisogno reciproco che, se non fosse disciplinata dallo Stato, darebbe origine ad un’irrefrenabile (e incontrollabile) sequenza di violenze e soprusi.

Ecco perché il contratto che fonda ogni società umana ha natura artificiale e impone allo Stato di essere assoluto, sovrano e potente, affinché sia, in buona sostanza, capace di sopprimere ogni tentativo di far prevalere l’interesse personale.

Solo riconoscendosi tutti sudditi di un’autorità esterna, lo Stato, gli uomini possono abolire ogni forma di antagonismo reciproco (che, sempre secondo la dottrina del filosofo inglese, ritornerebbe in conclusione a prevalere qualora i sudditi si trasformassero in cittadini, cioè in soggetti titolati a giudicare la cosa pubblica).

Non è necessario sottolineare quanto Thomas Hobbes abbia influito nel teorizzare lo Stato assoluto (ossia legibus solutus, cioè “libero da legami) e non è necessario sottolineare quanto la sua dottrina abbia profondamente determinato l’azione di chi ha rivendicato nella storia un ruolo prioritario dello Stato proprio in caso di emergenze…

Per Thomas Hobbes, lo Stato era una reale entità degna di venerazione: un Dio mortale appena al di sotto del Dio immortale: un Leviatano, ossia un mostro invincibile (non a caso, il mostro appena citato che compare nella Bibbia ispira il titolo della principale opera dell’autore appena ricordato, “Il Leviatano”, 1651).

Riassumendo: non giudicando, in definitiva l’essere umano un animale sociale, Thomas Hobbes ha teorizzato che esso osserverebbe la legge e rispetterebbe la sicurezza altrui solo per timore della forza esercitata dallo Stato…

Come ben sappiamo, fortunatamente lo Stato assoluto è, in teoria, terminato (almeno in Occidente) con la fine della Seconda guerra mondiale.

Ma quali sono stati i principali oppositori delle teorie assolutiste di Thomas Hobbes?

Quali sono stati, quindi, i principali sostenitori di una visione più ottimista delle capacità umane?

Pur sostenendo la teoria contrattualistica abbracciata da Thomas Hobbes per descrivere quel patto sociale tra gli uomini all’origine dello Stato, John Locke (1632-1704) ha opposto al Leviatano una corrente di pensiero che avrebbe condizionato l’era moderna in maniera determinante: il liberalismo.

La vita di John Locke fu indissolubilmente legata alle vicende della seconda rivoluzione inglese che si concluse nel 1689 con l’avvento del trono di Guglielmo d’Orange e l’instaurazione di un regime liberale.

Teorico della democrazia, predicatore della tolleranza, profeta di una netta distinzione tra Stato e Chiesa, è proprio grazie a John Locke che l’empirismo inglese raggiunge pienezza e consapevolezza.

La sua visione della società si pone fin da subito in antitesi a Thomas Hobbes. John Locke sostenne, infatti, l’idea di una continuità tra la condizione naturale-primitiva e quella sociale-politica dell’uomo.

Nello specifico: sostenne che il formarsi di una società non doveva essere pensato come un evento necessariamente traumatico e artificiale, ma al contrario come un perfezionarsi di una fondamentale esigenza di socializzazione.

Ribaltando, perciò, l’idea per cui l’istinto dell’individuo fosse solitario e aggressivo, John Locke, pose le basi di una società dove i cittadini potessero finalmente definirsi tali e non più sudditi.

A John Locke, come abbiamo visto dobbiamo il liberalismo, e nello specifico due presupposti estremamente interessanti da tenere a mente: il principio della divisione del potere e il principio di resistenza (o diritto di ribellione).

La divisione del potere è fondamentale per capire lo Stato moderno (e il suo limite, come abbiamo visto in “La lunga notte della democrazia”), ma cosa comporta? In buona sostanza una distinzione netta tra potere legislativo, potere esecutivo e potere giudiziario affinché anche il legislatore si sottometta alla legge da egli stesso emanata.

Riassumendo: lo Stato, nato per salvaguardare i diritti naturali dei cittadini, non può mai agire in senso contrario, ossia negandoli; ecco perché per salvaguardare il cittadino dagli abusi del potere si rende necessaria la divisione del potere.

E per quanto riguarda il diritto di ribellione? Esso, in parole povere, altro non è che il legittimo diritto del popolo di rovesciare (anche con la forza) un’autorità statale che opprima le libertà individuali dei cittadini e quindi alteri la divisione del potere.

Non è quindi sbagliato, in linea teorica, guardare a John Locke come ad un precursore dell’Illuminismo e di tutti quei valori chiave delle società moderne.

Senza approfondire in questa sede il valore dell’educazione secondo il padre del liberalismo (tema sul quale torneremo prossimamente), è opportuno ora introdurre un nuovo autore (determinante nel capire come in futuro l’illuminismo subirà una profonda crisi).

Jean Jacques Rosseau (1712-1778) fu anticonformista, individualista, illuminista ma anche, romantico.

Per molti, ha rappresentato il teorico della Rivoluzione francese, per altri l’autore di una critica alla società moderna, per altri ancora un nostalgico sognatore di una perduta innocenza primitiva.

Ma chi è stato veramente?

Secondo Jean Jacques Rosseau, la filosofia ha il compito di liberare l’essere umano dalle catene imposte dalla civiltà e di riportarlo quindi alla primitiva libertà.

Secondo l’autore francese, la storia non avrebbe infatti prodotto (con la società, e quindi con lo Stato) un progresso ma bensì una decadenza morale. In questa condizione, l’essere umano sarebbe degradato e di conseguenza avrebbe abbandonato quella spontaneità degna del buon selvaggio che gli era proprio in uno stato di natura.

Ribaltando la tradizionale ottica della società, Jean Jacques Rosseau, avrebbe pertanto ipotizzato che l’essere umano non nascerebbe cattivo ma che diventi tale solo quando nasce lo Stato.

Riassumendo: l’evidente malvagità dell’essere umano moderno non deriverebbe da una tara o da un peccato originale ma dalla natura artificiale, contro-natura, dei rapporti sociali.

Particolarmente perniciosa fu pertanto la nascita della proprietà privata che, a differenza di quanto riteneva John Locke, altro non era per Jean Jacques Rosseau che una causa alla base dell’invidia sociale.

Alla luce di quanto abbiamo approfondito, non ci resta che affrontare una domanda essenziale: come supera il pensiero anarchico millenni di riflessioni sullo Stato?

Il pensiero anarchico, che ricordiamo non teorizza il caos ma la fine del potere dello Stato sugli individui, appunto, per primo si pone nella storia dell’umanità in una posizione nuova.

Come abbiamo visto, John Locke stesso non nega, come d’altronde fa il pensiero liberale, uno spazio (necessario) allo Stato ma con la nascita del pensiero anarchico qualcosa inizia a cedere e quella che secondo alcuni resta ancora un’irrealizzabile utopia, inizia a conquistare gradualmente il cuore di molte generazioni…

Per (tentare) di rispondere alla domanda che ci mette nella condizione di provare ad immaginare un’esistenza senza Stato, credo sia opportuno introdurre le riflessioni di William Godwin.

William Godwin (1756-1836) fu il primo espositore di un pensiero che potremmo definire anarchico.

Nel suo pensiero conversero eterogeneamente elementi diversi ma che grazie alla sua intuizione si fusero in un’esposizione ampia e chiara.

Secondo l’autore, la società poteva (e forse può) esistere senza Stato perché è naturale e la natura è ordinata e razionale, si regge su leggi proprie.

In “Enquiring concerning Political Justice”, 1793, scriveva:

“La legge morale dovrebbe in definitiva coincidere con quella naturale, nel senso che l’etica e la politica, se rettamente intese, devono esprimere verità naturali universali trascendenti il diritto positivo configurato dai processi storico-culturali”.

Ma perché allora, si potrebbe chiedere, la storia umana non è che un susseguirsi di istituzioni autoritarie?

Da dove ha origini il potere politico?

Secondo Godwin, lo Stato è nato in un’epoca di profonda immaturità della ragione, per garantire la pace sociale. Esso, si sarebbe infatti fondato esclusivamente sul presupposto del monopolio della forza: un limite al libero sviluppo degli individui.

La critica al principio di autorità portò quindi Godwin a rigettare tutte le possibili determinazioni storiche dello Stato e a teorizzare che l’abbandono dello Stato si sarebbe potuto concretizzare solo con un processo di educazione civica e di diffusione di una cultura libertaria ed egualitaria.

Riprendendo le concezioni anti-innatistiche e sensiste di John Locke, secondo cui l’essere umano acquisisca tutte le idee tramite i sensi (e quindi, tramite l’apprendimento), William Godwin rovesciò il tavolo, criticò tutto (compresa la deriva insita in ogni rivoluzione violenta) e gettò “il cuore oltre l’ostacolo” formulando su un nuovo livello l’idea che l’oppressione del potere si potesse superare solo con uno scatto in avanti del pensiero umano…

Le diverse teorie politiche che abbiamo fin qui analizzato sono spesso in conflitto tra loro e non è quindi possibile giungere ad un’unica teoria in grado di spiegare in modo esaustivo la nascita e il senso dello Stato.

A questo punto non ci resta dunque che guardare, finalmente, cosa effettivamente respiri “fuori dal cerchio”, ossia, appunto, fuori dalla teoria politica dello Stato…