Let’s love, let’s diverge

Perché il nostro presente ha un disperato bisogno della divergenza?

Per pensiero divergente, si intende la capacità di individuare (o creare, se necessario) soluzioni alternative ad un determinato problema che per sua stessa natura non prevede una sola soluzione.

Gli studi sulla creatività hanno individuato due tipi di pensiero: il pensiero divergente (o laterale, appunto) e il pensiero convergente.

Per evidenti ragioni, non casualmente è stato deciso di seguire il primo in questa sede, poiché esso è l’unico strumento capace di spiegare un problema effettivamente complesso in un contesto sociale dove ragione e istinto si contendono costantemente l’anima dell’uomo (e della storia).

Esistono dei problemi (come ad esempio la maggior parte dei problemi matematici) che prevedono spesso un’unica soluzione esatta. Esistono invece altri problemi che richiedono la capacità di elaborare diverse possibili alternative.

Affinché sia tuttavia possibile trovare soluzioni ottimali di fronte a questa seconda tipologia di problemi è consigliabile seguire un metodo che prevede: l’individuazione di più soluzioni possibili, la ricerca di un pensiero originale, il rafforzamento della convinzione per cui sia sempre necessaria un’implementazione e infine l’accettazione attiva dell’esistenza di infiniti punti di vista.

Che le novità appena descritte non appartengano alla politica e alla burocrazia non stupisce, dopotutto è ormai opinione comune l’idea per cui non spetti alla politica e alla burocrazia creare, ma ad altri…

Ma chi sarebbero questi “altri”?

Nel gioco delle parti e del frazionamento ideologico dell’esistente, “gli altri” sono “gli strani” e “i ladri”, ossia gli artisti e gli imprenditori.

Pur ammettendo necessaria la creatività in figure come quelle degli artisti o degli imprenditori, e pur negando le etichette qualunquiste per cui i primi sono “gli strani” e i secondi “i ladri”, qualcosa continua comunque a stonare.

La ragione è presto spiegata: essendo il presente tutto, tranne che divergente da sé stesso, interpreta ciò che realmente diverge da qualcosa (o potrebbe farlo) come una minaccia.

Si interpretano così, di conseguenza, tutte quelle contraddizioni per cui si celebra la libertà dell’essere umano ma nei fatti si nega allo stesso di esprimere le proprie migliori inclinazioni ricattandolo con le esigenze del mercato o di regole non condivise (o condivisibili); si interpretano così, inoltre, i consigli per cui si deve studiare non per sé stessi ma per il proprio futuro datore di lavoro, si interpretano così le critiche a chi sceglie di costruire un lavoro con le proprie risorse (materiali e immateriali), si interpretano così i sensi di inadeguatezza di fronte alle innovazioni…

Perché, in definitiva, abbiamo un crescente bisogno della divergenza? Perché senza divergenza non c’è vita. Punto.

Le giuste attenzioni di un mio caro amico, mi hanno recentemente convinto della seria possibilità che gli autori delle rivoluzioni del ’68 abbiano negato tutto e deciso di sconsigliare a chi li ha seguiti di tentare qualcosa di nuovo per vergogna e paura che una nuova rivoluzione potesse soggiogare anche lo spirito di un nuovo futuro.

Esiste per caso qualcosa di meno divergente della rassegnazione di chi rinuncia ad imparare dal passato? Probabilmente si.

Volendo riassumere, non esisterà mai una sana alternativa all’oblio della civiltà senza analisi di ciò che siamo e soprattutto senza analisi di ciò che siamo stati.

Dopotutto, la vera morale del mito di Icaro, come insegnava Stanley Kubrick non è “non avvicinarti troppo al sole”, ma costruisci ali più solide.

In fede, let’s love, let’s diverge.