Cronache di un mondo affaticato
In queste ultime ore si fa un gran parlare del Salone del libro e da più parti ci si domanda perché esista una qualche forma di complicità nella rassegnazione, ossia un patto (non scritto) nel quale l’intellettuale finge di credere ancora nelle proprie parole e il pubblico finge di trovare in essa una scintilla di speranza.
La riconosciuta svogliatezza fin qui osservata ha una radice precisa e malgrado essa trovi senso grazie a quella sgradevole sensazione di impotenza che molti intellettuali riconoscono, è opportuno domandarsi se essa possa però spiegarsi alla luce di dicotomie ormai lise.
In altre parole, pretendere di spiegare quanto appena descritto alla luce del fatto che dopo decenni di analisi, denunce, mobilitazioni culturali, la sinistra non sia riuscita a fare fronte a un mondo che ha accelerato nella direzione opposta è fuorviante e non già perché non esista la sinistra ma perché la sinistra in quanto tale, (così come la destra), non ha più senso.
L’avanzata delle destre, il trionfo del capitalismo più predatorio, lo smantellamento dello stato sociale, la crisi ecologica sono fatti certamente da non ignorare ma possiamo davvero credere che gli intellettuali siano stanchi perché nessuno ascolta le loro opinioni a proposito di ciò che abbiamo appena ricordato?
E se fosse vero che gli intellettuali non vengono ascoltati quando denunciano l’avanzata delle destre significa che a destra non esistono intellettuali e che, di conseguenza, essendo la cultura appannaggio esclusivo della sinistra, la sinistra riconosce implicitamente di essere l’unico baluardo di una democrazia (a senso unico)?
Malgrado potrebbe sembrare facile affermare che “a destra non ci sono intellettuali”, la realtà è molto più complessa di quanto sembri; di conseguenza, prima di stracciarsi le vesti e di disperarsi di fronte ai dati che continuano a vedere l’editoria in crisi credo sia opportuno rendersi conto prima di tutto che “destra” e “sinistra”, forse, non bastano in effetti più.
Insomma, possiamo ancora ritenere sostenibile, nel 2025, un pensiero che si limiti a credere che i democratici siano i “buoni” e Donald Trump il “cattivo”? Io credo di no e non già perché Donald Trump sia un esempio da ammirare senza condizioni ma perché Donald Trump è attualmente parte di un gioco delle parti in cui il vero potere non trova più sede (e soluzione esclusiva) nell’esercizio democratico del voto.
Non diversamente, a fronte delle preoccupazioni che nutro a proposito di come Elon Musk licenzi i suoi dipendenti e incoraggi l’uso della robotica in maniera massiccia nelle sue aziende, non credo che i democratici potrebbero rispondere in maniera “inclusiva” giacché essendo essi a loro volta protagonisti di un già citato ruolo delle parti non credo che riuscirebbero a rispondere in maniera convincente alle grandi sfide del lavoro all’orizzonte.
La presenza di illustri esponenti della Silicon Valley all’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca che cos’è stata, dopotutto, se non una dimostrazione della connivenza fin qui descritta? E la proposta di Hillary Clinton che a suo tempo suggerì agli operai del settore automobilistico che avevano perso il lavoro di aprire una “start up” a cinquanta o sessant’anni che cosa fu se non una prova evidente del fatto che a “sinistra” non riuscirebbero comunque ad affrontare con responsabilità il divenire?
È senz’altro vero che tutto può cambiare in seno agli attuali partiti (non solo negli Stati Uniti d’America) ma se questi rispondono ormai convintamente alle evidenze e allo “status quo” quella connivenza che solo in apparenza preserva una dicotomia utile alle masse ma che poi, nella peggiore delle zone grigie trova realizzazione, può forse disciogliersi dove oggi trova senso?
Ad essere onesti, esiste comunque un’alternativa che supera sia la cultura di destra che quella “progressista” ma al Salone del libro e, più in generale, nel mondo dell’editoria, si cerca di non vederla. Molti intellettuali capaci e preparati sono infatti ampiamente snobbati dalle università e dalle case editrici perché spesso e volentieri dicono o scrivono cose scomode, pensieri realmente divergenti rispetto alle dicotomie qui osservate e il fatto che non siano apprezzati (o quantomeno presi in evidente considerazione) è un problema per la democrazia molto più serio di Giorgia Meloni.
I problemi riconosciuti come il trionfo del capitalismo predatorio, lo smantellamento dello stato sociale e la crisi ecologica sono certamente problemi veri come già è stato ribadito ma è possibile affrontarli evitando di scadere nella retorica del pensiero “di destra” o in quella del pensiero “progressista”?
“In medio stat (ancora) virtus”, dunque?
Oggi viviamo nell’ossessione per le etichette e se non prendi una posizione a prescindere sei automaticamente un “populista” o un “no qualcosa” ma la verità è che la grande stanchezza riconosciuta (e comunque esistente) trova senso perché la maggior parte di chi pretende di fare cultura non ha il coraggio di assumersi la responsabilità di posizioni scomode o in aperto conflitto con il potere (quello vero).
Facciamo un esempio: il Salone del libro potrebbe mai ospitare un autore che scrive un libro satirico dal titolo “Romanzo di una donna”? Non credo, eppure l’anno scorso, il Salone del libro ospitò il romanzo “Romanzo di un maschio” a firma delle Eterobasiche: un concentrato di luoghi comuni che mi domando quale senso abbia avuto se non quello di continuare a delegittimare attraverso appunto i luoghi comuni tutti i maschi.
Pur condividendo perciò il fatto che esiste una ” grande stanchezza” credo abbia senso chiedersi se questa non dipenda proprio dalle attuali posizioni a volte un po’ retoriche: posizioni che gli editori incoraggiano, di fatto, solo perché sui social trovano un riscontro.
Ma può esistere una possibilità capace di rompere l’esistente?
È vero, trovo autoreferenziale (e quindi difficilmente sopportabile) l’idea di citarsi ma il ricordo di quanto scrissi nel mio ultimo saggio (e ancora prima in un articolo a mio avviso molto più significativo di quanto voglia ammettere) mi costringe a recuperare le pagine in cui feci riferimento a “Il tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler e a ricordare perciò per ragioni che presto spiegherò il seguente passaggio:
“Ne “Il tramonto dell’Occidente”, Oswald Spengler compie un’analisi comparativa di tutte le grandi civiltà.
Per l’autore, le caratteristiche delle civiltà consistono nell’essere ognuna un organismo in sé compiuto che, analogamente all’organismo umano, possiede le sue quattro fasi di età: infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia.
Come tutte le altre civiltà analizzate nel corso dell’opera, anche la civiltà occidentale è destinata all’estinzione e secondo l’autore, essa ha iniziato a estinguersi proprio nel XIX secolo quando ha avuto inizio la Zivilisation (“civilizzazione”), ossia quella fase storica in cui si è cominciato a mantenere in vita modelli culturali già morti.
Tale ultima fase della civiltà occidentale viene descritta da Oswald Spengler, (negli anni Venti del Ventesimo secolo), come una fase intellettualmente arida e politicamente fragile, la quale resiste alla sua stessa fine solo grazie al cambiamento continuo dei modelli di riferimento e al predominio incontrastato del denaro e della stampa.
Inutile ripetere che l’opera di Oswald Spengler abbia fatto discutere molto nei decenni successivi, soprattutto dopo la fine della Seconda guerra mondiale quando il tramonto dell’Occidente parve ai più un lamento di Cassandra…
Nonostante però la vittoria delle forze alleate durante l’ultimo conflitto mondiale, i caratteri generali dell’opera appena menzionata hanno a lungo perseguitato i critici poiché non a caso, ogni crisi dell’Occidente sembra non essere mai stata una crisi separata, ma un segnale da inserire in un quadro più ampio.
In altre parole, qualora dovessimo prendere sul serio Oswald Spengler, dovremmo osservare la crisi petrolifera degli anni ’70, la guerra in Vietnam, la bolla del Dot-com, l’11 settembre, la crisi dei mutui sub-prime, la crisi del debito in Europa e l’ascesa dei BRICS non come fenomeni unici, ma fenomeni da valutare con cognizione di causa nel loro insieme.
Ma possiamo davvero condividere le opinioni di chi scrisse “Il tramonto dell’Occidente”? Oswald Spengler ha commesso un errore? Sebbene sia difficile riconoscerlo, non possiamo fare però a meno della convinzione per cui l’Occidente sia dominato dal denaro e dalla stampa non ha commesso un errore.
A prescindere tuttavia dalle ragioni di carattere morale e dalle conseguenze di un dominio (eccessivo) dell’economia e dei mezzi di informazione, l’Occidente non solo dimostra con crescente rapidità i sintomi del declino ma si ritrova a dover gestire, nel momento in cui scrivo, un fatto che avevamo già previsto: il mondo multipolare.”
Io, oggi, non so ancora se possiamo condividere l’opinione di Oswald Spengler ma ciò che egli denunciò è qualcosa che nelle ore in cui si tiene il Salone del libro ha luogo giacché non solo abbiamo accettato il predominio del denaro e della stampa ma continuiamo a mantenere in vita modelli culturali già morti, (come ad esempio contrapposizioni utili solo alla divisione delle masse).
Di conseguenza, pur riconoscendo di nuovo le mie domande di fronte alle osservazioni di Oswald Spengler, “unire i puntini” si rivela essere per me, malgrado tutto, ancora una volta, un’attività naturale che inevitabilmente mi costringe a provare un nuovo salto e a chiedermi se non sia possibile saltare nella “Quarta dimensione” grazie a un superamento dell’essere umano ma non in chiave transumana ma in chiave “superumana”.
In parole povere, “unire i puntini” adesso, alla luce dell’affaticamento osservato, mi suggerisce di chiedermi (e di chiedervi): possiamo imparare qualcosa da Nietzsche?
Il Superuomo che egli teorizzò avrebbe disprezzato la razionalità, ogni valore etico e avrebbe vissuto in modo dionisiaco riconoscendo l’inganno insito in tutte le filosofie e quindi percepito lo scorrere del tempo come eterno ritorno, perciò, domando: e se l’avvenire avesse bisogno di “Superuomini” e “Superdonne” 3.0? “Superuomini” e “Superdonne” capaci di uccidere dèi post-moderni come i fast food e lo scientismo?
Friedrich Nietzsche affermò che uccidere Dio significa liberarsi dalle catene del mondo soprannaturale, essere capaci di vivere senza false speranze e accettare con gioia la vita nella sua totalità, (morte compresa) dunque chiedo: potremmo mai superarci? Potremmo mai ignorare chi ha fallito ogni previsione come Yuval Noah Harari e dimostrare che la risposta non è nei chip ma in superamento delle nostre bassezze con la riflessione e l’interiorizzazione del bello? Potremmo mai superare l’ovvio di chi studia per un buon voto ma poi, (come la maggior parte dei colleghi giuristi), non è capace di proporre soluzioni concrete a problemi quotidiani come (tanto per fare un esempio) l’abusivismo edilizio?
In cuor mio, continuo a credere infine che le sfide che ci propongono questioni come l’Intelligenza artificiale, la robotica o il Transumanesimo non siano sfide che si possano affrontare con la rassegnazione di chi punta il dito contro un capro espiatorio di turno e grida al calo delle vendite dei libri dal momento che, attualmente, l’alternativa che abbiamo di fronte prevede o l’accettazione dell’importanza che ha la valorizzazione della consapevolezza del singolo o una macchina che risolve per noi problemi che potremmo risolvere con l’intelletto.
Non diversamente, se consideriamo che la maggior parte degli autori letti da chi frequenta il Salone del libro sono autori scomparsi i quali, attualmente, non riuscirebbero a trovare un editore, continuo a credere (e a sperare) che la divergenza possa prima o poi trovare il posto che merita anche nel suo stesso presente.