Elogio della scrittura (dell’Io e di un Occidente che non c’è)

La mia anima è un terreno di scontro, un paese tormentato dal conflitto tra posizioni stabili e abituali e posizioni ribelli che votano tutto il loro essere alla scrittura.

Spiegare ai più le ragioni di quanto appena scritto e, naturalmente, l’insoddisfazione che sorge una volta (ri)letto ciò che è stato appena scritto è vano in un tempo distratto e ogni giorno sempre più assuefatto della ripetitività.

Ciononostante, tentare di gettare qualcosa oltre l’ostacolo dell’oggi si rivela essere non solo necessario ogni volta che lo vedo, il conflitto, ma anche opportuno.

Scritto quello che ho appena scritto, chiarisco allora fin da ora due fatti: alla luce dello sviluppo sempre più dinamico di una tecnica che erode la consapevolezza umana, rendersi conto di essere sostituibili è un atto rivoluzionario e che dei silenzi imbarazzanti e forse patetici che osservo (o ascolto) quando condivido il dubbio che mi trascino dietro non si può fare molto.

Essendo però il silenzio parte di un periodo i cui paradossi sono già stati osservati non credo abbia tuttavia senso insistere verso una critica fine a sé stessa e che sia più opportuno, al contrario, dare una forma dinamica a ogni osservazione.

In altre parole: comprendere di essere potenzialmente non necessari in un processo di produzione ripetitivo e apprezzare al contrario la propria unicità quando ci si relaziona con un processo creativo come la scrittura non può che ispirare depressione e coraggio allo stesso istante.

Come infatti è stato ricordato in altri contesti da maestri ben più capaci di me, se è vero che ciò che ci distingue come esseri umani è la capacità di dare spazio alla creatività è importante, oserei fondamentale, ricordare e valorizzare con crescente impegno non quelle attività rituali e ovvie dove chiunque potrebbe appunto subentrare ma tutte quelle attività che ci definiscono e che nessun altro potrebbe fare.

In breve, se chiunque potrebbe sostituire tutto sommato il mio ruolo in ambito consulenziale, legale o imprenditoriale nessuno potrebbe scrivere come scrivo io e non tanto perché io sia bravo ma perché nessuno potrebbe elaborare ciò che la mia mente elabora di fronte al vuoto.

Allo stesso modo, se è vero come è stato inoltre ricordato che nulla è ciò che sembra e che la stessa luce può essere onda e particella nel medesimo momento è importante non procedere privi della consapevolezza che possiamo creare anche nel dubbio e dare perciò sostanza al dubbio stesso, a prescindere.

Io che provo invidia o forse ribrezzo per chi di certezze ne ha tante e spiega tutto con luoghi comuni o schemi altrui, di fronte al silenzio o, peggio, al grido rivoltante di chi ha letto “1984” ma non lo ha capito so di avere relativamente poco potere mal il tempo e il potere che hanno le lettere so troveranno spazio presto, in un tempo naturalmente ancora non definito e quindi puro come lo spazio bianco che esita di fronte alla penna.

Insomma, in un tempo sterile che pretende di spiegare tutto con l’ideologia, scrivere, per me, significa fare mio il diritto di difendere il mio “io”: il principale punto di partenza di ogni pensiero e azione.

Nel caso di specie, dunque, proprio perché credo che sia dall’ “io” e dal suo diritto più autentico di valorizzarsi che ha inizio ogni scontro con il dominio non posso e mai potrò esimermi dal credere che ogni battaglia che rigetta l’individuo, (a prescindere dal suo sesso) non sia una vera battaglia per la libertà.

Ma la battaglia che ci impegna o dovrebbe impegnarci per la libertà non è una battaglia che vede impegnate le nostre risorse esclusivamente contro le ideologie che dividono qui, in Occidente, uomini e donne dal momento che essa dovrebbe vederci impegnati anche per combattere chi ha perduto una dimensione della storia e sacrifica le contraddizioni dell’attualità sull’altare di uno scontro non ben precisato con l’esterno.

Chi possono infatti aiutare le frasi “Solo l’Occidente conosce la storia” e “Solo noi abbiamo la cultura” se non i nostri “nemici”?

Io credo si sia è discusso poco (e male) della frase del ministro Valditara che pretende che l’Occidente sia l’unico a conoscere la storia così come credo si discuterà poco (e male) della frase di Roberto Vecchioni per cui “Solo noi abbiamo la cultura”.

È in effetti grave, soprattutto oggi, ignorare le grandi tradizioni storiografiche come quella cinese, giapponese, persiana, indiana, islamica e africana e direi addirittura contradditorio con chi si è sempre dichiarato “antifascista” per cui mi domando: convincersi di essere gli unici portatori (sani) di cultura non è un segno di una decadenza che non si vuole ancora accettare? Non voler riconoscere le proprie mancanze prima che sia il futuro ad accorgersene in maniera traumatica è sintomo di un cortocircuito o di un sempre più pervasivo predominio di un poter che non conosciamo?

Non credo sia un caso che la sola apparente contrapposizione tra destra e sinistra trovi una convergenza in due uomini, Roberto Valditara e Roberto Vecchioni rispettivamente di “destra” e di “sinistra” perché la loro evidente negazione del più autentico spirito umanista occidentale, quello che impegna ad aprirsi verso l’altro con rispetto dell’altro ma anche di sé, si spegne infatti di fronte alla tecnocrazia che supera destra e sinistra e mantiene viva la democrazia grazie all’accanimento terapeutico.

Se, in conclusione, è difficile quindi riconoscere il valore proprio e altrui come ci insegnano i più autentici pensatori di un Occidente che fu come Voltaire, Montaigne o Vico credo che di fronte all’incapacità di capire e gestire l’Intelligenza Artificiale o un tempo che dovrebbe vederci adattarci a nuovi paradigmi ci sia ben poco da fare così come temo ci sia ben poco da fare di fronte a un “nemico” che non conosciamo se ci dimentichiamo di noi e ci contraddiciamo ancora e ancora sacrificando l’individuo e il suo ruolo sull’altare della giornaliera omologazione.