25 aprile, apparenza, dati e antifascismo (di cartone)

La frase “mio figlio va bene a scuola!” non è solo la frase con cui il genitore medio si autoconvince che tutto stia andando bene ma è altresì la frase che incoraggia le peggiori intenzioni del nostro tempo.

Innanzitutto, occorre precisare che le valutazioni della scuola non sono un parametro affidabile grazie al quale premiare la genitorialità e poi occorre prontamente aggiungere che la scuola non può e non potrà mai essere, rebus sic stantibus, sinonimo di affidabilità.

Si può, in effetti, contraddire le osservazioni di chi, (come il sottoscritto), denuncia un’evidente scissione tra fame di nozioni e curiosità? I figli che “vanno bene a scuola” non hanno nessuna curiosità per ciò che è la conoscenza; le loro librerie, in casa, sono vuote e vuoti sono i loro tempi “liberi” perduti appunto su Tik Tok o su qualche testo scolastico banale che sono costretti a sfogliare.

Nonostante esista, per fortuna, una minoranza veramente interessata alla formazione dei figli (soprattutto lontano dai banchi di una scuola ogni giorno più fallimentare), la maggior parte dei genitori pensa di poter continuare a ignorare i vuoti che sopportano (gli stessi che li hanno ispirati a riprodursi) vantandosi con amici e parenti dei “bei voti” conseguiti infatti dai loro eredi.

La verità, per quanto triste sia da accettare, è che la frase “mio figlio va bene a scuola!” non descrive però un disagio isolato ma, come accennato, incoraggia le peggiori intenzioni del nostro tempo poiché quel “figlio che va bene a scuola”, non diversamente dalla sorella (o dalla cugina) sarà un genitore, un cittadino e una cittadina altrettanto mediocre.

A prescindere dalle scelte individuali sul proprio futuro che, spesso e volentieri, saranno condizionate al termine delle scuole superiori da pregiudizi di terzi è probabile che difficilmente si riuscirà a trovare del tempo per migliorare la propria formazione e non già perché il tempo mancherà in quanto tale ma perché poco o nulla di ciò che si è imparato in passato incoraggerà a cercare risposte in piena autonomia.

Pochi incoraggiano in effetti l’ambizione di capire dinamiche della realtà spesso mai approfondite a scuola e, ripeto, non perché il tempo per leggere o approfondire non si possa trovare dopo le scuole superiori ma perché nella mente di chi ha da poco sostenuto l’esame di maturità ben presto comincia a radicarsi la convinzione per cui sia opportuno maturare non conoscenze bensì “skills” spendibili sul mercato del lavoro.

Mutatis mutandis, il ragazzo o la ragazza poco prima impegnato o impegnata a soddisfare aprioristicamente le aspettative del genitore comincia a impegnarsi per soddisfare le aspettative di un mondo del lavoro ancora più contradditorio della scuola (a prescindere, ribadisco, dalla sua decisione di proseguire o meno gli studi).

Come evidente conseguenza di quanto appena osservato lo spirito che avrebbe potuto cercare nel momento migliore della vita l’ispirazione per incoraggiare la curiosità si spegne e si uniforma perciò all’evidenza, alla caratterizzazione della categoria di appartenenza la quale risponde a regole precise previste da terzi (non necessariamente in modo consapevole) per continuare a definire il presente, a standardizzare lo stesso secondo modelli prevedibili ma anche e soprattutto secondo logiche di mercato che definiscono un consumatore e permettono di ascriverlo nei limiti di una precisa categoria.

Sì, se un tempo, in altre parole, eravamo “carne da cannone” oggi siamo dati e se possiamo sperare di non tornare ad essere “carne da cannone” non so se possiamo sperare di riscoprirci anche qualcos’altro lungo un cammino che dovrebbe condurre verso la consapevolezza.

In parole diverse ma non per questo meno schiette, se un tempo eravamo in balia di storie più grandi di noi, oggi, i genitori felici per i figli che “vanno bene a scuola” e i figli possono immaginare un futuro nel quale le loro opinioni hanno, veramente, valore?

“Capitalismo della sorveglianza” di Shoshana Zuboff e testi come “Sapiens” o “Homo deus” di Yuval Noah Harari descrivono molto bene il ruolo che hanno i dati nella società in cui viviamo ma soprattutto descrivono molto bene il ruolo che noi abbiamo nei confronti della società che “subiamo” e purtroppo, nonostante il dibattito che i libri in esame hanno suscitato, la politica non ha ancora cominciato un dibattitto serio sullo stato di salute della democrazia in Occidente e, anzi, ha continuato ad assecondare un dibattito intellettualmente sempre più mediocre e sempre più incline a descrivere la realtà grazie a parole e schemi concettuali ridicoli o anacronistici.

Vero, nei fatti, in teoria, molto si fa per combattere la disinformazione e garantire un certo pluralismo ma a prescindere dalle parole che “si indossano la domenica” possiamo credere che i mezzi di informazione siano capaci di proporci approfondimenti interessanti, utili e capaci di stimolare una riflessione critica?

La propaganda, checché se ne dica, oggi, esiste ancora e trova espressione nei telegiornali che comunicano un’informazione a metà, filtrata a monte e incapace, in concreto di informare in modo oggettivo il cittadino il quale, ascolta ma non pensa e risponde in maniera prevedibile facendo proprio un pensiero già masticato da qualcun altro.

Non so se possa esistere un’informazione veramente oggettiva ma so che può esistere uno sforzo teso a impegnare la propria oggettività nel momento in cui si comunica un’informazione; allo stesso modo, non so se possa esistere un’alternativa capace di incoraggiare l’individuo a maturare l’idea che la realtà è ben più complessa di come spesso racconta un professore, un datore di lavoro, un giornalista o un influencer ma so per certo che essere cittadino significa partecipare in maniera diversa dalle modalità con le quali oggi si partecipa alla vita della “cosa pubblica”.

Superata effettivamente la solita e disturbante manfrina che divide i più tra fascisti e antifascisti, i partiti, sui grandi temi, sono in disaccordo?

Si prenda ad esempio Antonio Scurati e, non a caso, il tema dell’antifascismo e si consideri il fatto che appena due anni fa, il noto scrittore nulla scrisse a proposito del fatto che bastasse poco per essere tacciati di essere “nemici della scienza”.

Per quanto vittima di una ingiustificabile censura, Antonio Scurati non ha mai incoraggiato una serie riflessione capace di ispirare lo spirito critico e, al contrario, ha elogiato un Mario Draghi le cui politiche non sono troppo diverse da quelle di Giorgia Meloni.

Nonostante Giorgia Meloni non abbia incoraggiato le politiche restrittive dell’ex Presidente del Consiglio, essa ha condiviso acriticamente la sua stessa linea sul piano internazionale e ciò in contraddizione con ciò che aveva spesso dichiarato e dimostrandosi in conclusione non diversa né da un tecnico né tantomeno da un qualunque altro politico.

Insomma, gridare al fascismo è un’arma di distrazione di masse che devia l’attenzione, ancora una volta, da temi sociali e morali molto più importanti.

Si può dichiarare di conseguenza che Antonio Scurati è complice, esattamente come tutti, di uno

“Zeitgeist” che privilegia interessi di parte a spese dei diritti degli individui? Temo di si e temo che questo spieghi un fascismo molto più perverso di quello che una certa parte del paese denuncia un giorno si e un giorno pure: un fascismo che trovò occasione di esprimersi quando già con Mario Draghi si consentiva di delegittimare chiunque avesse opinioni contrastanti dal governo e nonostante quelle opinioni si siano spesso rivelate per fortuna fondate (poiché motivate da uno spirito critico che combatteva lo scientismo e l’approssimazione di chi avrebbe messo nei campi di concentramento i cosiddetti “no vax”), sono state spese ancora poche parole per affrontare consapevolmente il fatto che il Fascismo non necessariamente indossa un fez ma anche una cravatta…