Una critica senza asterischi

Prima di cominciare una critica che ho promesso essere, (ironicamente), senza asterischi, credo sia necessaria una precisazione più che opportuna: sebbene io abbia ricevuto il battesimo non credo di potermi definire pienamente cattolico.

Ci tengo a precisare i dettagli del mio rapporto con la fede per due ragioni: innanzitutto perché è utile per comprendere alcune posizioni che esporrò qui di seguito e in secondo luogo perché è importante ricordare una volta ancora a chi lo avesse dimenticato che è mia intenzione continuare a ragionare al di fuori di ogni vana dicotomia, (o almeno provarci).

Da tempo, infatti, abbiamo cominciato a dividere la realtà attraverso degli schieramenti ben definiti e questo, non solo ha comportato una polarizzazione del dibattito ma ha diviso in maniera insensata le persone, bandito la logica di un conflitto costruttivo dalla società e, infine, impedito alle eccezioni e ai pensieri indipendenti di farsi spazio in mezzo al chiasso.

Come si sarebbero potuti criticare criticare alcuni aspetti della gestione della pandemia da parte del governo Draghi senza essere accusati di essere “no vax” o “no green pass” da parte dei media, credo, allo stesso modo, che si potrebbe oggi criticare una parte della politica del movimento lgbtqia+ senza dover opporre una critica a tutto il movimento in sé. Per la ragione appena descritta, dopo aver quindi ribadito quanto io sia di fatto lontano da molte posizioni della Chiesa cattolica, credo che nessun trucco atto a etichettarmi in un certo modo funzionerà in questa sede e se qualcuno, di conseguenza, penserà che io sia “omofobo” perché criticherò appunto alcune posizioni del movimento lgbtqia+ commetterà un errore di giudizio che mi sento di contestare, serenamente, fin da subito.

Il mio rapporto con la fede, nei giorni in cui ho deciso di studiare il Corano, il Medioriente e l’Oriente, si può spiegare partendo da un presupposto: le scienze empiriche possono avere valore solo nella misura in cui confermano le scienze sacre. Peccato però che, scrivere ciò che ho appena scritto, significa, purtroppo, rinnegare un presente (non solo contradditorio e distopico) ma anche cieco, un presente che usa il termine “esoterico” senza sapere di cosa si tratti, che fa talvolta dello yoga una moda per mettersi in mostra e che, infine, nega ogni coinvolgimento con lo spirito (e, di fatto, con ciò che non a caso, per esempio, è davvero lo yoga).

Banalizzare ogni singolo aspetto dell’Essere (o del non-Essere) e superare certi limiti imposti dai fatti fa dell’umanità un’umanità scientista, non a caso, la quale pur di trovare una risposta lì dove sa che non troverà risposta, innalza sull’altare della fede qualcosa che può collaborare con la fede ma che parte, comunque, da un presupposto diverso: la scienza.

Ora, dell’incontro quasi sincretico tra diverse visioni del Trascendente scriverei volentieri a lungo (e non escludo che lo farò) ma adesso, declinando su un piano pratico e concreto una visione che era opportuno precisare con la mia “fede” di uomo liberale aggiungo un ulteriore tassello al quadro della mia critica, diciamo, senza asterischi: ogni essere umano ha il diritto e il dovere di esprimere la propria natura nel modo in cui ritiene più saggio.

Tuttavia, c’è un “ma” alla possibilità di esprimere la propria natura e questo “ma” trova un senso negli stessi limiti per cui la civiltà, da sempre, si pone delle leggi (positive e morali).

Nell’esprimere la natura del singolo è opportuno, in effetti, conoscere un equilibrio che chi conosce bene le leggi della fisica e della natura può individuare ovunque; per questo ultimo motivo, in parole povere, se non ci fosse un equilibrio cosa potrebbe impedirmi di realizzarmi nel furto, ad esempio? O in un qualsiasi altro atto che lede il prossimo?

Data l’esistenza di un punto di non ritorno entro il quale si stabilisce (certo con difficoltà) l’equilibrio dell’esistenza, giungiamo quindi a spiegare la prima critica da cui non posso prescindere: “giocare a fare Dio” è pericoloso.

La maggior parte di noi ricorda il film “Jurassic park” come “il film dei dinosauri” ma “Jurassic park” fu molto di più: fu infatti, (esattamente come il libro da cui fu tratto), una critica al desiderio dell’uomo di superare le leggi della natura e imporsi come di fatto nuovo Dio e, non a caso, quando alla fine i dinosauri prendono di fatto il controllo dell’isola Nublar, si riappropriano del loro spazio vitale e confermano le preoccupazioni del dottor Malcolm quando mette in guardia dal tentativo di controllare il loro sviluppo in un laboratorio.

Per quanto, quindi, possa sembrare all’apparenza fantastica l’idea di permettere a due persone dello stesso sesso di avere un figlio grazie all’ausilio della fecondazione assistita, penso che possa esserci qualcosa di poco fantastico nell’assecondare quello che rischia di essere in realtà un capriccio, (capriccio che, si badi bene, penso sussista anche tutte le volte in cui è una coppia eterosessuale a pretendere di avere un figlio quando non può).

Camminare sui sentieri dell’etica è rischioso e difficile, lo comprendo: ciò che intendo semplicemente ribadire è che la natura (quella che teoricamente dovrebbero tutelare gli esponenti di “Ultima generazione”) ha delle regole precise la cui violazione non si sa bene cosa possa comportare.

Allo stesso modo, c’è un ulteriore regola della natura di cui trovo a dir poco sorprendente la negazione e questa regola vuole che nella specie umana (e più in generale nei mammiferi) esistano due generi, il maschile e il femminile.

Io per primo, proprio in apertura ho ribadito quanto sia importante, talvolta, superare una visione binaria (non a caso) del reale per addivenire ad una migliore comprensione dei fatti ma di fronte ad una verità oggettiva e scientifica come l’esistenza di due soli generi non posso non ritenere antiscientifico l’atteggiamento di chi non si riconosce nel binarismo sessuale.

A tal proposito, trovo ancora più contraddittorio l’atteggiamento di chi nega il binarismo sessuale e crea bandiere in virtù della parola “queer” perché nega un’idea che al Pride è stato ampiamente ripetuta: non esistono etichette.

Se non esistono etichette, (come d’altronde è giusto che sia) perché categorizzare tutto? Perché spingersi oltre ogni confine? Perché creare dei segni distintivi e porre un confine netto lì dove si afferma la volontà contraria?

Per quanto possa essere doloroso ammetterlo ma ci sono verità nella nostra vita che devono essere accettate. Per cui, come liberale, ribadisco la mia ferma determinazione nel difendere il diritto ciascuno ad autodeterminarsi ma sempre nei limiti del possibile.

Nell’ossessiva ricerca di pretendere che non esistano due sessi e nella conseguente ricerca ossessiva di non creare etichette (dopo averle create) noto piuttosto un gioco tipico del potere che spezza, divide e caratterizza e non a caso, credo, le più grandi multinazionali giocano molto sul tema dei “diritti” proprio per creare un “target” ad hoc al quale rivolgersi dopo aver fatto un “bagno purificale”.

Ad ogni modo, credo sia a questo punto necessario esprimere un’opinione a mio avviso divergente ma comunque necessaria: ciò che ormai si esprime al Pride non credo abbia più nulla a che vedere con l’omosessualità e la bisessualità (né tantomeno con il femminismo, termine che uso ora in maniera impropria, temo, esclusivamente per rivolgermi alle lotte sacrosante per la parità di genere).

Certo, immagino sia facile continuare a servirsi di specifiche bandiere ma tutto sommato, non penso di essere in errore nel ribadire, una volta ancora, che la difesa dei diritti di chi vorrebbe amare chi vuole non passa necessariamente da un disgregamento della scienza e da un atteggiamento talvolta passivo-aggressivo che ridicolizza la cosiddetta “famiglia tradizionale” e ne sminuisce il ruolo.

C’è una piccola polemica, in conclusione, che in questi giorni può a mio avviso spiegare bene la deriva di una civiltà che ha scelto di non accettare alcune realtà e di non darsi più limiti e mi riferisco a chi ha definito le croci sulle nostre montagne come dei simboli “divisivi” e “anacronistici”.

Nel ribadire quanto abbia poco in comune con la Chiesa come istituzione, credo sia tuttavia necessario spiegare che trovo nella chiacchiera poc’anzi ricordata una pretesa puerile e ignorante.

La croce, come tale, da simbolo di umiliazione è assurta infatti a simbolo di riscatto nei secoli per i cristiani e per i non cristiani, (talvolta), perché è un messaggio rivolto a tutti, in maniera indistinta ed è un messaggio che promette prima di ogni cosa la vittoria dopo una tremenda tribolazione; (in termini più laici, non casualmente Edmond Dantes, il protagonista de “Il Conte di Montecristo” è il “Conte di Montecristo” e non casualmente per Alexandre Dumas la figura di Cristo è centrale nella sua visione di rinascita).

Dunque, ritenere “divisivo” un simbolo come la croce che può non rivolgersi solo ad un cristiano e non, ad esempio, una bandiera arcobaleno che esclude, di fatto, gli eterosessuali, oltre ad essere sciocco contempla una vera e propria operazione di disgregamento di una cultura millenaria che, volenti o nolenti, ci appartiene come ci appartengono Roma, Dante Alighieri, il Rinascimento e sì, certo, anche la presunta omosessualità di Leonardo da Vinci, “grulli”.

Tuttavia, in linea di massima ammetto di non essere più stupefatto di un atteggiamento in buona sostanza iconoclasta e la ragione la posso qui spiegare grazie ad una serie televisiva in onda su Netflix dal 2020: “Dracula”.

Sebbene trovi spiacevole, in questa sede, anticipare il senso di una serie che ho trovato interessante mi vedo costretto a spiegare il “perno” intorno a cui ruota il Dracula di Netflix per spiegare il probabile senso del dolore che noto.

Dracula, in breve, è secondo Netflix un vampiro potente ma che teme la croce non già perché essa simboleggia il Cristianesimo ma perché Gesù è colui che ha avuto il coraggio di fare qualcosa che lui non ha mai avuto il coraggio di fare: affrontare la fine.

Tempo fa, osservando la volontà di anestetizzare il dolore da parte di una buona fetta dei miei contemporanei, pensai a Byung-Chul Han quando scrisse che la società occidentale ha bandito la sofferenza per paura di stare male ma così facendo, rimuovendo il dolore e, il conflitto (per citare invece Benasayang) si è condannata suo malgrado ad erigere come divinità la tecnica e la finanza intorno alle quali si produce, si vive un’esistenza monotona e paradossalmente priva di stimoli.

Una volta rimossa l’idea di una “società inclusiva” (la quale poi esclude chi ha opinioni apparentemente in contrasto con determinate maggioranze) cosa resta del presente? Una normale identificazione con Dracula, lo strapotere della finanza a discapito dei sistemi democratici che nulla hanno più a che vedere con la stessa, l’apatia diffusa che spinge molti ad andare in terapia pur avendo tutto ma pur sapendo che manca sempre qualcosa, l’incapacità di potersi costruire un futuro perché il sistema economico non premia più l’impegno e contraddice i princìpi stessi della concorrenza, una piccola polemica ogni tanto per continuare a dividere le masse e una diffusa paura per la crescita personale che non cerchiamo più nella sfida ma, ahimè, nel libro di qualche “counselor”  stampato (forse) su carta riciclata.

P.S. A dimostrazione del fatto che in linea di principio non è una famiglia “non tradizionale” a suscitare i miei dubbi (come spero sia stato ben chiarito) ci tengo a concludere precisando che piuttosto che insistere sul tema della fecondazione assistita preferirei vedere una più sincera attenzione sul tema delle adozioni come strumento per alleviare la sofferenza di tanti bambini senza genitori: non appartengo in effetti ad un “club” di persone che crede sia meglio tenere lontano gli orfani da una coppia di persone dello stesso sesso, anzi ed è per questo che ritengo opportuna una politica che tuteli, da un lato, il rispetto delle adozioni di bambini senza genitori e, dall’altro, la posizione dei bambini qualora un coniuge dovesse separarsi, divorziare a accompagnarsi infine con una persona dello stesso sesso.