Il fascino riservato dell’ignavia-Salotto Caronte (Parte prima)
Quando l’amore raggiungeva il suo estuario, le profondità dell’oceano si richiudevano immediatamente sui loro corpi con inafferrabile potenza.
“Resterai a studiare con me?”
Libera guardò amorevolmente il suo compagno e coprendosi il seno con l’orlo del lenzuolo gli rispose senza nessuna esitazione:
“Amore, oggi purtroppo non posso restare… Ti ricordi che torna mio fratello da Milano?”
Francesco Rossi abbassò gli occhi verso il suo petto, la bocca si contorse in maniera quasi impercettibile e la sensazione di sentirsi nuovamente alla deriva lo strattonò.
“Non fare così, Francesco…te lo avevo detto!” Aggiunse prontamente Libera cercando di essere comprensiva, “Non vedo mio fratello da sei mesi…”
“Sì ma…”
“Ma non dirmi che hai bisogno di me per continuare a studiare?” Lo interruppe cercando di non essere pungente.
Il ragazzo si guardò intorno e iniziò a cercare una risposta tra il comò alla sua destra e la scrivania di fronte ma non trovò nulla e le acque si fecero di conseguenza ancora più oscure:
“No Libera, figurati…Magari a questo punto potrei approfittarne anche io per rivedere mia sorella…”
La ragazza gli sorrise nuovamente:
“Perché no!”
“Perché no…” Concluse senza convinzione Francesco.
Si voltò verso la ragazza che aveva condiviso con lei ben dieci esami e tentò di rispondere al suo sguardo attento con sicurezza e determinazione:
“Resterai a pranzo?”
“Se ti fa piacere volentieri!”
Dagli occhi da cerbiatta di Libera promanò un’onda di energia pulita e responsabile, un significato profondo: “grazie”.
–
Nonostante tutto, nonostante ogni appello alla volontà, dopo quasi due ore Francesco dovette arrendersi e piegarsi all’evidenza: senza Libera non avrebbe potuto neppure concludere un capitolo del libro.
Riguardò i suoi appunti con disinteresse e distacco, quindi i suoi evidenziatori e l’ambiente silenzioso della sua camera ma nulla riuscì ad ispirarlo…
Si alzò confuso dalla scrivania e camminò verso il letto ancora sfatto, si distese tra le lenzuola ancora fortemente impregnate dell’odore della ragazza e si portò le mani alla fronte:
“Sei un vero coglione!”
Sebbene non avesse mai avuto occasione di deludere le aspettative dei suoi genitori, non avrebbe potuto ritenersi pienamente all’altezza dei suoi doveri e la ragione si poteva spiegare con una sola parola: dipendenza.
Già, ma non tanto di Libera in quanto tale. Piuttosto di qualcuno. A prescindere.
Quando aveva lasciato Napoli due anni prima per studiare economia a Roma non avrebbe mai immaginato quanto sarebbe stato facile dipendere da una donna che paradossalmente non aveva alcuna volontà nell’assecondare le sue mancanze. Anzi!
Eppure, anche se Libera aveva dimostrato chiaramente le sue intenzioni più di una volta, lui non aveva potuto fare altro che fingere e cercare scuse per continuare a dipendere da lei…
Maschilismo? Ad essere onesti no.
Dipendenza affettiva? Probabilmente sì.
Più di una volta si era domandato perché non riuscisse a fare meno della compagna per espletare le mansioni più semplici della sua vita e più di una volta, guardando nel profondo del suo animo, non aveva trovato una risposta diversa dalla parola “sicurezza”.
Sapeva cucinare, lavare, pulire… sapeva dove pagare le bollette, sapeva gestire i conti di casa, sapeva farsi la spesa, sapeva giocare a scacchi con astuzia da anni e sapeva persino studiare con rapidità ma…con Libera vicino ogni piccola azione quotidiana sapeva essere meno gravosa…
In altre parole: con Libera vicino tutto poteva sembrare più scorrevole e questa sensazione, inutile ripeterlo, non dipendeva assolutamente dal suo essere donna, bensì dal suo essere dinamica.
Se al posto di Libera ci fosse stato un uomo, magari un coinquilino più sveglio di quello che il Fato gli aveva affibbiato, probabilmente avrebbe riposto nel coinquilino le sue aspettative ma così non era stato…
–
Quando riaprì gli occhi, un sole timido e freddo aveva già iniziato a salutare la città.
Guardò il telefono cellulare al suo fianco e oltre al messaggio di Libera notò il messaggio di sua sorella: “Salotto Caronte, ore 21?”
E sia. Salotto Caronte, ore 21.
–
La metropolitana che ferma a Termini si riempì come di consueto, fermata dopo fermata, di speranze e sogni infranti.
Francesco Rossi si guardò intorno. Scorse di fronte a sé una ragazza dai capelli rossi e dal vago profilo famigliare…quindi, poco lontano da lei una gitana che chiedeva l’elemosina e una coppia di turisti probabilmente tedeschi…
“Prossima fermata…Castro Pretorio…uscita lato…destro!”
Quanta enfasi, ogni volta, per un annuncio…
La metropolitana rallentò all’improvviso, poi accelerò immediatamente e ritornò a seguire un ritmo regolare, infine approdò a Castro Pretorio.
Qui, non scese nessuno e al vagone si unì solo un signore anziano.
La verità? Avrebbe voluto che Libera fosse più presente.
Per quanto cercasse infatti di ricordare il contrario, Libera non poteva assolutamente evitare di dirgli come fare le cose. Era necessario. Indispensabile.
Si voltò verso la ragazza dai capelli rossi e seguì la linea delle sue gambe accavallate…
“Fulvia?”
No. Impossibile.
Guardò con maggiore attenzione e d’un tratto la ragazza alzò il mento e ricambiando il suo sguardo smentì l’impressione che lo aveva stretto…
Che figura!
Eppure…eppure un bagliore aveva superato la luce al neon della carrozza e Francesco Rossi non aveva potuto fare a meno di notarlo…
–
All’uscita della stazione Termini, il vagone si svuotò. La ragazza dai capelli rossi anticipò Francesco di pochi passi e sparendo dietro un gruppo di ragazzi che raggiungeva l’uscita si portò dietro un’impressione quasi fisica…
“Libera…”
Il ragazzo accelerò il passo e per un’istante pensò di seguire la misteriosa ragazza ma di fronte all’indicazione della Linea A rinsavì e un nuovo incubo riprese a tormentarlo:
“E se questa misteriosa malattia di cui tutti parlano arrivasse in Italia?”
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Tra Termini e Piazza Vittorio Emanuele non ci sono fermate intermedie e il viaggio, di conseguenza, durò abbastanza per alimentare le fiamme del suo disagio…
Oltre un quartetto di adolescenti, un ragazzo asiatico che indossava una mascherina chirurgica lo fissò: “E se questa misteriosa malattia di cui tutti parlano fosse già arrivata in Italia?”
Per un’istante, per un brevissimo istante, si sentì confuso e quell’immagine gli apparve sproporzionata e quasi buffa ma il tempo, come al solito, non gli bastò e il treno approcciò i binari della stazione che doveva raggiungere.
–
Salendo le scale mobili verso la sera si guardò intorno per cercare qualche altra forma di vita che indossasse una mascherina ma non vide nessuno e per evidenti ragioni si tranquillizzò.
Forse, non sarebbe accaduto nulla. Forse, nessun virus avrebbe attraversato l’Asia e raggiunto Roma…ma se fosse già accaduto? Se fosse stato costretto ad affrontare una sfida così nuova come avrebbe fatto senza Libera?
La sua casa, in piazza Elio Callistio, sarebbe diventata una discarica e inevitabilmente, lui sarebbe divenuto un rifiuto…
Che orrore.
–
Attraversò a grandi passi e frettolosamente il corridoio sudicio che portava all’uscita est di Piazza Vittorio Emanuele. Salì le scale come un’atleta, a due a due, e nonostante il gelo di gennaio rivedere le stelle e la vita al di fuori della metropolitana lo rincuorò.
Virò a sinistra, verso via Machiavelli e all’incrocio con la piazza, dove finiva il portico, una ragazza di poco più di trent’anni gli venne incontro:
“Hey!”
Sebbene il cappuccio rosso della giacca antivento coprisse quasi interamente il volto sottile di Chiara Rossi, Francesco avrebbe potuto riconoscere la voce e l’odore della sorella anche in una folla:
“Ciao Chicca!”
Gli diede un bacio sulla guancia:
“Ti vedo stanco, tutto bene?”
Francesco alzò le spalle:
“Non male…”
Ma Chiara, come ogni sorella maggiore che si rispetti interpretò subito quella risposta e non attese troppo:
“Andiamo ad ammazzarci di americani dai!”
–
Non appena i due fratelli varcarono le soglie del “Salotto Caronte”, alle 21 in punto, un’atmosfera quasi mistica e a dir poco seducente li avvolse immediatamente e li ispirò a prendere posto in due comode poltrone in pelle rossa a sinistra dell’ingresso.
“Allora, cominciamo bevendo qualcosa di forte?” Esordì Chiara tutta raggiante.
Francesco si sfilò il piumino e le abbozzò un vago sorriso:
“Nulla da obiettare…”
Si guardò intorno e tra le luci soffuse di quell’ambiente che aveva già conosciuto iniziò a ricercare le stesse certezze ma dopo meno di due minuti, l’angolo degli alcolici e la porta della cucina che apriva su un mondo parallelo svanirono e apparve una graziosa ragazza dai capelli ramati:
“Cosa posso portarvi?”
“Direi di cominciare con due buoni americani!” Le rispose prontamente Chiara.
“Ok!”
Francesco seguì distrattamente la ragazza con lo sguardo e tornò subito ad ispezionare quel piccolo capolavoro che era il bancone del bar.
“Come sta Libera?”
Francesco rinsavì nuovamente dal dolce oblio che aveva iniziato a cullarlo:
“Sta bene dai, questa sera usciva con il fratello…”
Chiara si tolse finalmente il giaccone e si adagiò sulla poltrona:
“E con lei…come vanno le cose?” Domandò abbassando leggermente la voce.
Francesco rivide gli occhi languidi della compagna spronarlo nel prendere autonomamente qualche iniziativa e ripensò a tutto quello su cui aveva meditato in metropolitana:
“Onestamente faccio fatica a pensare di vivere senza di lei…” Ammise.
Chiara arricciò il naso:
“Cazzo, sei serio frate’!”
Avrebbe voluto che la sorella comprendesse subito la ragione della sua dichiarazione ma l’arrivo dei cocktail li riportò rapidamente alle incombenze del tavolo.
“Alla tua!” Dichiarò la ragazza alzando il bicchiere verso il fratello.
Francesco bevve un primo sorso e il sapore agrodolce dell’aperitivo gli sussurrò delle buone intenzioni; poi, d’un tratto, l’umidità grigia della strada e il fetore del sottosuolo scomparvero e ripiombarono in un inferno ben diverso da quello che “Il Salotto Caronte” pretendeva di rappresentare…
“A cosa pensi?”
Francesco Rossi ripensò alle bolge che stava abbandonando, al ragazzo asiatico con la mascherina e al dubbio:
“Hai sentito di questo virus cinese?”
Chiara annuì.
“Cosa ne pensi?”
La sorella alzò le spalle e posò il bicchiere semivuoto sul tavolo: “Secondo me andrà a finire come con l’aviaria nel 2010 e tra due mesi non ne parleremo più…Almeno spero…”
“E se dovesse arrivare in Italia?” Insistette il giovane studente di economia.
“Goditi il drink, Francesco…Goditi il drink…”
–
Al termine del secondo americano, Chiara Rossi convinse il fratello a seguirla fuori per una sigaretta.
Indossarono quindi nuovamente le giacche e dopo aver ordinato il terzo giro, aprirono la porta di ingresso e si trovarono un angolino sul marciapiede.
“Sicuro che non ne vuoi una?”
“Sicuro.”
All’improvviso, un boato squarciò i cieli sopra la Capitale e senza attendere parole di permesso, le nubi si aprirono alla tempesta.
La pioggia iniziò quindi a grondare violentemente e senza esitazioni invase le strade, i tetti, gli animi: una polvere quasi irrespirabile coprì l’atmosfera di angoscia e frustrazione, ovunque si cominciò ben presto a pensare ad una tromba d’aria insolita…
I due fratelli, colti alla sprovvista, si ritirarono di conseguenza sull’uscio e con il permesso della stessa cameriera con cui avevano parlato all’arrivo, lasciarono la porta semiaperta per continuare a fumare.
“Sai a cosa stavo pensando prima?”
Chiara buttò fuori dal naso una nube di fumo e continuò a guardare la strada:
“No…”
“Ti ricordi Fulvia?”
“Mi ricordo che eri pazzo di lei…” Gli rispose divertita.
Francesco abbassò lo sguardo:
“E’ passato tanto tempo…in ogni caso, prima in metropolitana ho visto una ragazza che le somigliava…”
“E quindi?”
“Niente…Mi sono semplicemente chiesto che fine avesse fatto…”
La ragazza gettò la sigaretta per terra e fece cenno al fratello di rientrare.
“Non abitava a Roma?” Gli domandò riprendendo posto in poltrona e afferrando il terzo americano.
“Si…Ma non la sento da dieci anni…Magari si è trasferita…”
Chiara bevve un sorso e accavallò le gambe:
“Vorresti rivederla?”
Francesco guardò fuori dalla finestra dove la tempesta continuava a tormentare la città.
“Avanti…dopo due americani puoi dirlo a tua sorella…non lo saprà nessuno…”
Il ragazzo guardò con un leggero fastidio il ghigno malizioso della persona che sedeva di fronte a lui e avvertì un brusco turbamento stringergli il petto:
“Non è questo il punto!” Si affrettò a chiarire.
“Coraggio…”
I loro occhi si incrociarono e un secondo, nauseante, turbamento, tornò a visitare il petto di Francesco:
“Ti ho detto di no.”
Il bicchiere di vetro oscillò nella mano di Chiara che colse qualcosa di non facilmente comprensibile e cambiò subito argomento:
“Va bene, scusa…”
–
Al termine della terza bevuta, Francesco Rossi sentì l’evidente necessità di andare in bagno.
Senza dire nulla alla sorella, si alzò quindi dal suo posto e cercando di apparire serio imboccò la strada verso i servizi igienici.
Superò il bancone, intravide le cucine e sparendo nel gabinetto si ritrovò solo con un pensiero invadente e fastidioso: sì, in fondo gli avrebbe fatto piacere rivedere Fulvia…
–
Quando si incontrarono per la prima volta avevano entrambi dodici anni.
Accadde quasi per caso, in spiaggia, a Sorrento, dove sia Fulvia che Francesco trascorrevano le vacanze estive.
Si videro ad un bar, entrambi in fila per comprare un gelato. Poi, si rividero sul bagnasciuga e infine, vicino al calcio balilla:
“Hai dei capelli molto strani!” Le disse quasi senza pensarci.
Fulvia non gli rispose nulla in particolare. Si limitò a sorridergli e a presentarsi.
Così, giocarono. Poi mangiarono insieme un secondo gelato e infine divennero amici.
A dodici anni, la malizia è qualcosa di inspiegabile. C’è ma non si vede. Di tanto in tanto ricorda il suo ruolo, soprattutto ai maschietti, ma non insiste mai e resta quieta nel suo mondo, in attesa di una scoperta fortuita…
Per questa ragione, forse, l’estate passò senza conflitti e tra una confessione e un’altra, Francesco Rossi scoprì che Fulvia abitava a Roma e frequentava Sorrento perché sua nonna aveva una casa in centro.
Quando l’estate terminò e i primi acquazzoni iniziarono a rovinare le atmosfere sorrentine, Fulvia tornò a Roma per ricominciare la scuola e Francesco a Napoli. Tuttavia, prima di partire, si scambiarono i numeri di telefono e gli indirizzi e nel corso dell’anno continuarono così a sentirsi quasi ogni giorno.
Con il passare del tempo, l’amicizia divenne sempre più forte e l’estate successiva, quando si ritrovarono, non poterono fare a meno di continuare a condividere il tempo insieme.
Passò così un’altra estate, senza occasioni o turbamenti; dunque, un altro anno scolastico e dopo due anni dal loro primo incontro, si rividero nuovamente a Sorrento ma non più con gli occhi ingenui dei bambini poiché il tempo aveva intanto fatto strage delle loro ultime corazze infantili e liberato entrambi verso le pulsioni di una pubertà prossima alla rivelazione…
Tutto avvenne in maniera quasi inaspettata:
“Purtroppo i miei genitori hanno divorziato…” Gli confidò, “E per questa ragione non posso restare più di una settimana quest’anno…”
Il ricordo di quella confessione riaccese la memoria di Francesco che davanti allo specchio del bagno si rivide trafitto dalla malinconia:
“Vuol dire che…”
Le labbra di Fulvia, rosa come una pesca, lo invitarono come quel giorno sulla spiaggia, il seno di lei, all’alba della sua virtù gli sussurrò nuovamente parole terribili e quel bacio rubato e stupido lo fece tremare come allora…
Aprì l’acqua e si deterse il viso: Fulvia stava fuggendo verso il centro, aveva le lacrime agli occhi…
“Ti prego Fulvia, non andare via!”
Ma Fulvia è lontana. E’ lontana e quasi irraggiungibile…
“Fulvia!”
Gli occhi di Francesco si intrecciarono in una dimensione che non conosceva, rotearono e rividero il passato come se non fosse mai andato via…
“Tutto bene?”
Guardò il riflesso di uno sconosciuto nello specchio e trasalì:
“Tutto bene?” Gli domandò una seconda volta.
“Tutto bene, grazie.”
–
Una folgore squarciò il velo della notte e interruppe la tregua conclusasi poche ore prima.
Francesco Rossi aprì di conseguenza gli occhi e intorno a sé, oltre l’oscurità, saggiò il piacere del sonno quando il mondo soffre per una tempesta.
All’improvviso, percepì un sospiro e alla delicatezza del mondo si unì la serenità di sapere Libera vicino a lui…
Chiuse quindi gli occhi e immediatamente una consapevolezza astratta ma certa lo mise all’erta: Libera non era tornata da lui quella sera.
Un secondo sospiro lo accarezzò e con esso si avvicinò la sensazione di non essere solo.
Il cuore iniziò pertanto a martellargli nel petto e a seguire il ritmo delle gocce di pioggia sulle finestre; si chiese dove fosse, in quale letto fosse capitato e l’unica risposta che riuscì a darsi fu quella tipica di un’animale in fuga…
Cautamente, si voltò verso lo spazio dove dormiva di solito la compagna ed effettivamente, nell’oscurità, vide un’ombra osservarlo e attenderlo: istintivamente abbandonò il giaciglio come se scottasse e accese la luce sul comodino ma al di là del dolore che i suoi occhi gli proposero non vide nulla.
Si passò una mano tra i capelli e accettò l’unica spiegazione che avrebbe potuto accettare: il sogno.
Quante volte, dopotutto, aveva sentito raccontare di sogni talmente reali da sembrare veri? Troppe.
Eppure…Eppure qualcosa lo aveva visto.
Bevve un sorso d’acqua, respirò e si toccò il corpo tremante: sì, qualcosa lo aveva visto.
Toccò il cuscino di Libera e il gelo dell’assenza lo rassicurò.
Spense la luce, si ridistese e in men che non si dica riprese sonno.
Ciononostante, intorno a lui continuò a muoversi qualcosa e nella sua mente, al di là della danza che aveva intrapreso la tempesta, nulla avrebbe potuto sconfiggere una vertigine sopraffina e strana.
Poco prima dell’alba, dopo aver rivisto il mare, si ritrovò di nuovo in camera, sospeso.
Davanti a lui, una ragazza completamente nuda stava facendo l’amore con un ragazzo che non riusciva a vedere, un ragazzo alto e bruno, un ragazzo che di sfuggita e in modo impercettibile poteva tranquillamente essere lui…
Con morbosa curiosità, si mosse dunque verso il letto, verso la ragazza seduta a cavalcioni dello sconosciuto e fissando intensamente i suoi lunghi capelli agitati notò una lucentezza innaturale brillare e virare verso le sfumature del fuoco…
“Chi sei?” Avrebbe voluto gridare ma la lingua non gli rispose e prima che la misteriosa ospite potesse vederlo, il buio li riavvolse in una nube e l’alba lo sorprese esattamente dove si era addormentato poche ore prima.
(…)