Disuguaglianza, sviluppo e formazione

Il tema della disuguaglianza dei redditi è un tema scottante e sempre vivo.

Ma la disuguaglianza è un fattore naturalmente insito al capitalismo? Davvero non si può scindere progresso da differenza? E quali sono i parametri che ci consentono effettivamente di giudicare in modo oggettivo le stesse disuguaglianze sociali e, magari, affrontarle?

Mettiamo una cosa in chiaro: in linea  di principio possiamo essere tutti uguali solo davanti alla legge.

Il mito infatti secondo cui siamo tutti uguali a prescindere è appunto, probabilmente un mito: un mito  fondato su un’illusione che non tiene conto di differenze insite all’individuo stesso, (a prescindere dalla sua estrazione sociale).

Il dibattito si sa, molto spesso, non si basa sui numeri (e ignora le disuguaglianze meritocratiche, frutto del lavoro faticoso e lungimirante di generazioni che meritano rispetto in una società che si vanta di riconoscere un valore sociale alla famiglia), così come non si basa sulla fortuna che spesso ma sempre meno volentieri aiuta gli audaci ma piuttosto su un presupposto ideologico che dimentica di conseguenza che disuguaglianza non significa necessariamente ingiustizia in termini assoluti e a priori.

In parole diverse, premesso in generale che solo con lo sviluppo economico si possono ottenere condizioni migliori per tutti, sarebbe molto più saggio probabilmente concentrare la propria attenzione sulla disuguaglianza delle opportunità piuttosto che su quella dei risultati.

Se discutiamo del tema, ad esempio della mobilità intergenerazionale possiamo in effetti considerare che si riescono a mettere da parte soluzioni approssimative solo ragionando in funzione di una  lotta alle disuguaglianze con un aumento delle opportunità a favore dei più giovani.

Insomma, (ri)partire da un’economia di mercato libera e concorrenziale, la quale consenta non solo migliori opportunità di lavoro ma anche a chi ha un’idea imprenditoriale di poter aver successo anche in assenza di un capitale importante di partenza è un discorso non di poco conto che merita un approfondimento non indifferente.

Certo, l’approfondimento di cui sopra è possibile grazie soprattutto a un diverso ruolo degli istituti di credito e delle piattaforme di crowdfunding ma anche di realtà come la scuola e l’università.

A prescindere da ciò che potrebbe il mondo della finanza, molto potrebbe altresì il mondo dell’istruzione e della formazione e le motivazioni sono presto spiegate.

Secondo l’ultimo rapporto annuale dell’Istat “Associando i titoli dei figli a quelli dei genitori, tuttavia, si osserva che oltre il 40% dei figli la cui famiglia d’origine ha un livello d’istruzione basso non va oltre il titolo di licenza media, e poco più del 10% riesce a ottenere un titolo universitario. All’opposto, tra i figli dei laureati, l’incidenza dei titoli di licenza media è meno del 4% e oltre il 60% ha acquisito un titolo universitario. La capacità attuale del sistema di istruzione di promuovere l’eguaglianza delle opportunità appare, quindi, a tutt’oggi sostanzialmente limitata all’obbligo scolastico e, anche in quest’ambito, gli abbandoni sono fortemente correlati col titolo di studio conseguito dai genitori”.

Nello specifico, pur potendo anche scaricare la colpa sulle famiglie se qualcosa “va storto” sarebbe sbagliato non considerare le gravi lacune del sistema scolastico italiano. Non tutti gli alunni hanno infatti la possibilità di accedere a scuole pubbliche o private di alta qualità e i risultati dei test basati su parametri internazionali dimostrano ampie disparità tra le regioni.

Aggiungiamo inoltre che i programmi delle scuole pubbliche e private sono ormai inadeguati a preparare i giovani ad essere competitivi sul mondo del lavoro, ci ritroviamo a osservare che, tolta la formazione di base, imprescindibile, nessuno sembra decidersi a iniziare un dibattito con consapevolezza a proposito della necessità di sostenere i singoli nella loro crescita come singoli.

La cieca convinzione che tutti debbano seguire lo stesso percorso scolastico non solo in effetti distrugge la creatività ma contribuisce a indebolire il settore produttivo, a fiaccarne la capacità di osservazione e di analisi critica nel medio e nel lungo periodo.

Di eserciti di bravi studenti a recitare filastrocche ma incapaci di sviluppare un pensiero critico e incapaci di seguire le proprie autentiche passioni perché costretti a studiare spesso e volentieri materie che non interessano, il nostro tempo è non a caso pieno così come è pieno di politici insensibili a problematiche evidenti.

Sì, occorre ampliare l’offerta formativa e la possibilità concreta anche per i meno abbienti di poter scegliere scuole di qualità (anche private se necessario, grazie al contributo se possibile di aziende disposte ad investire nelle risorse umane) e sì occorre fare a meno di riforme “tanto per” ma la possibilità reale (non teorica) di scegliere e di poter accedere a un insegnamento di qualità, prescindendo dal reddito, non sarà mai possibile senza la previa attuazione di una proposta capace di conciliare umanesimo e tecnica.

In Italia spesso ad esempio accade che scuole ed università private, piuttosto che ragionare sul lungo termine investendo in borse di studio per i meritevoli, preferiscano investire in marketing per consolidare una visione di brand a breve termine.

Per questo motivo, occorre quindi, come nelle aziende di successo una visione duratura che punti sul merito effettivo e consenta di aiutare le persone a crescere.

Ci sono numerosi esempi di successo a livello internazionale sui quali sarebbe opportuno ragionare e da questi esempi bisognerebbe prendere ispirazione in maniera critica e non dogmatica ma purtroppo la fretta e l’inadeguatezza dei docenti spinge a concludere troppo precipitosamente dei corsi che meriterebbero molta più attenzione (e da studente spesso garantisco che un buon voto all’esame diventa l’unico vero obiettivo a scapito di una corretta preparazione che ripeto, in alcune materie, in determinati settori, si raggiunge non in un semestre, ahimè!).

Scuola, università, sindacati sono dunque istituzioni strutturalmente obsolete e come già ricordato, occorre reinventare con serietà tutto questo partendo da dati di fatto reali che se continuiamo a negare condanneranno il paese a decenni di isolamento e inadeguatezza.

Non so se le disuguaglianze in quanto tali siano perciò inevitabili ma credo in conclusione che date le stesse possibilità di partenza, occorra permettere anche all’ultimo dei “falliti” di fare la differenza se vuole e può.