L’impero del Nulla

Si può interpretare un’epoca approfondendo sicuramente i dettagli del suo spirito, i dettagli, cioè, del suo “zeitgeist”.

Domandarsi, di conseguenza, quale sia lo “zeitgeist” del nostro presente è inevitabile e oserei, addirittura, naturale ma individuare una risposta esaustiva è tuttavia difficile.

Ciò che è (o non è) il Festival di Sanremo spiega tuttavia bene quei dettagli non secondari che hanno già inevitabilmente compromesso ciò che abbiamo intorno poiché Sanremo non solo “è Sanremo” ma è per definizione il riflesso della società che lo ospita e lo immagina. 

Chi vorrebbe boicottare il Festival della canzone italiana, a mio modesto parere, sbaglia. 

Sanremo è, in effetti, qualcosa di importante nel panorama culturale non solo italiano ma europeo, per cui credo sia importante precisare fin da subito che le imminenti critiche non sono rivolte al festival in se ma al festival per ciò che è (diventato).

Ma, in sintesi, cosa è stato possibile osservare sul parco dell’Ariston?

Innanzitutto, i giovani cantanti vestiti male, travestiti, “ribelli” per convenienza, “fluidi”, problematici, viziati, finti e banali nei contenuti ma anche Chiara Ferragni, Paola Egonu e Roberto Benigni…

La prima serata della settantatreesima edizione del Festival di Sanremo ha avuto infatti inizio nel peggiore dei modi: con Roberto Benigni che imita se stesso e racconta la Costituzione.

Di per se, in linea teorica, l’idea di raccontare i princìpi costitutivi della Repubblica alla presenza dell’inquilino del Quirinale non è una cattiva idea ma essa non serve a nulla se non siamo in grado di dare un senso alle parole dei padri costituenti e non siamo quindi in grado di evitare una criminalizzazione a prescindere di tutti coloro che hanno criticato il Lockdown, il coprifuoco e il “Lasciapassare verde”.

Come se non bastasse, l’ipocrisia di chi pensa che per essere cittadini esemplari basti non pensare e adeguarsi a ciò che dice la mappa di riferimento di “qualcun altro”, a Roberto Benigni si sono sostituite presto Chiara Ferragni e Paola Egonu: due esemplari rappresentazioni di un presente privo di forma.

Di Chiara Ferragni si potrebbe scrivere a lungo ma onde evitare noiose analisi su ciò che ella (non) è, mia sia concessa in questa sede una sola domanda: da dove discende la sua autorevolezza?

Io, si badi bene sono un liberale e in quanto tale sono un uomo che incoraggia e ammira l’intraprendenza quando essa trova ragione nel talento ma se trovo quindi una giustificazione del successo di Gianni Versace e Giorgio Armani nell’impegno, nell’esperienza e, non a caso, nel talento, come posso individuare qualcosa di interessante in Chiara Ferragni?

In altre parole: se Gianni Versace e Giorgio Armani hanno potuto costruire qualcosa, (anzi, “cucire” qualcosa) poiché prima di essere stilisti erano stati sarti e magazzinieri, lo stesso non si può dire di Chiara Ferragni la quale, avendo sempre veicolato messaggi di terzi, non penso abbia qualcosa di “effettivamente” suo da dire.

Se esiste qualcosa di diverso dal tribalismo e da una logica binaria creata esclusivamente per dividere le masse, criticare ciò che vorrebbero rappresentare Chiara Ferragni e Paola Egonu non significa essere “haters” poiché non è scontato che una critica sia ispirata dall’odio come, purtroppo, si usa spesso “pensare”.

Allo stesso modo, di fronte a ciò che Paola Egonu vorrebbe rappresentare mi sento a disagio e non già perché io sia un maschio bianco e di bassa statura ma perché trovo insopportabile un pressappochismo degno del “bar sport”.

Perché se ieri gli italiani erano “responsabili” oggi sono tutti razzisti? Domandarselo non è scontato e non è un gesto polemico, anzi! Domandarsi infatti perché il messaggio necessiti sempre di una semplificazione atta ad appiattire con facilità tutto e tutti, credo che sia utile per capire il reale rapporto tra noi e i mezzi di informazione.

La verità è, come al solito, più complessa e sebbene in Italia, purtroppo, sopravvivano della sacche di razzismo, dimenticare che Paola Egonu ha potuto calcare il palco dell’Ariston perché l’Italia le ha consentito di indossare la maglia azzurra sarebbe fuorviante.

Ben vengano insomma le campagne contro l’odio ma non si fermino, per carità, all’ovvio, all’interesse del momento e, naturalmente, all’apparenza…

Sbrodolarsi sul petto frasi scongelate e riscaldate alla bell’e meglio sull’inclusività e sulla libertà mentre sul palco (e fuori) si contrappongono un’Italia che poteva, a prescindere, ad un’Italia che può solo se hai i mezzi è, purtroppo, ipocrita.

Ad Albano, Gianni Morandi e Massimo Ranieri, uomini che hanno dovuto superare la povertà per diventare ciò che sono è possibile contrapporre il figlio di Gigi D’Alessio, il figlio di Alessandro Gassman e il figlio di Biagio Antonacci senza porsi una domanda? 

A prescindere dalle differenze musicali, come si può, non interrogarsi in effetti su quanto sia diversa l’Italia di oggi (dove può solo chi ha già residenza presso il monte Olimpo) a quella di ieri?

In conclusione, chiedersi perché un appuntamento come quello del Festival di Sanremo debba (esattamente come il mondo della musica nel suo complesso) piegarsi senza condizioni ad una logica ipocrita, perbenista e prevedibile come quella di un capitalismo ormai alieno da se stesso, credo non sia solo doveroso ma necessario.

Sì, di Sanremo parliamo e parleremo perché è giusto che esso si continui a celebrare ma fino a che punto il Festival della canzone italiana potrà continuare ad essere qualcosa che la realtà crede di essere ma in verità non è?

Il mondo non ha bisogno di vivere solo di drammi e di pericoli, l’evasione è necessaria ma con il Festival di Sanremo che abbiamo immaginato essa non è più fuga dal reale ma costruzione di “verità” fittizie dove i veri problemi si liquidano con frasi comode e, chiaramente, “fatte” e immaginate per educare una volta per tutte le masse alle mappe concettuali di un potere invisibile ma spaventosamente forte, (il potere dell’impero del Nulla).