Margherita ed io (Маргарита и я)

“Chi sono io?” Così comincia “Nadja” di André Breton e così comincia, ogni volta, il mio viaggio, quando mi sorprendo a parlare di ciò che scrivo.

Io, temo, sono qualcosa di indefinibile perché sebbene mi confronti quotidianamente con la scrittura, sulla mia nuca pende una “spada di Damocle”, una contraddizione: vorrei essere più di ciò che sono, vorrei spiegarmi aprendo le porte del mio cuore; eppure, qualcosa di indefinito mi impedisce un’operazione naturale, spontanea e mi obbliga in conclusione a confinare nel profondo del mio “io” tutto ciò che mi ha creato.

Scrivere, tuttavia, di ciò che ha significato per me “Il Maestro e Margherita” mi costringe inevitabilmente ad un confronto, ad un’apertura, per cui desidero essere franco: io so di essere un’anomalia, so di essere divergente ma non ne ho vergogna.

“Il Maestro e Margherita” è un romanzo che mi ha salvato perché non solo mi ha permesso di riscoprire il piacere della lettura ma mi ha aiutato a riconquistare fiducia nel momento in cui una persona che amavo mi ha abbandonato e costretto di conseguenza ad osservare da solo il dolore di fronte alla scoperta di un male terribile nel petto di un membro della mia famiglia.

A scanso di equivoci: nell’amore non ci credo più. Non credo in ciò che scrivono i giornalisti sui giornali, non credo alla televisione e al cinema, non credo più, in poche parole, ad una mitologia contemporanea fine a sé stessa che ha fatto dell’amore un’utile merce di scambio.

Sono stato consumato e gettato via, sono stato privato del diritto di parlare e, di conseguenza, sono diventato un esempio perfetto di ciò che significa essere “parte” nella società dei consumi.

Ciononostante, “Il Maestro e Margherita” mi ha salvato perché in esso non ho trovato ciò che ho conosciuto, né un’illusione dolce bensì una possibilità, un raggio di sole al termine di una giornata “bianca” o uggiosa.

Il romanzo più famoso di Michail Afanas’evič Bulgakov ha inizio “nell’ora di un afoso tramonto primaverile” quando “comparvero ai Patriarshiye prudy due cittadini”: Michail Aleksandrovic Berlioz e Ivan Nikolaevic Ponyrev il quale scriveva, ci spiega subito Bulgakov, con lo pseudonimo di Bezdomnyj.

Quello che, all’apparenza, può sembrare il solito “romanzaccio” russo pieno di nomi strani sorprende già dopo poche pagine quando i due letterati che hanno deciso di dimostrare l’inesistenza di Gesù Cristo vengono interrotti da un misterioso individuo, un certo signor Woland.

“Non parlate mai agli sconosciuti” avverte il titolo del capitolo ma il signor Woland ha ormai conquistato la curiosità dei nostri protagonisti ai quali, all’improvviso, viene fatta una previsione dal misterioso viaggiatore, il quale annuncia a Berlioz che la sua testa verrà tagliata da una giovane donna e ad Ivan Nikolaevic Ponyrev che perderà il senno e sarà di conseguenza ricoverato.

Naturalmente, nessuno crede a Woland ma dopo un capitolo apparentemente incomprensibile in cui si apre un secondo piano narrativo dedicato a Ponzio Pilato, Berlioz scivola sul binario di un tram e viene decapitato proprio da una giovane donna alla guida del mezzo; il compagno di Berlioz, incredulo e atterrito per l’accaduto, crede che l’incidente non sia un incidente e comincia perciò ad inseguire Woland e un gatto misterioso che fugge addirittura su un tram.

Ponyrev, inutile ricordarlo, quando racconterà al circolo che frequenta le sue disavventure sarà preso per pazzo e, per evidenti ragioni, internato (proprio come il viaggiatore misterioso aveva previsto).

Nelle pagine che seguono, Woland, l’uomo che ha affermato di aver assistito al secondo interrogatorio di Gesù da parte di Ponzio Pilato, si comincia finalmente a rivelare per ciò che è veramente: un personaggio oscuro, “appariscente” e titanico. In altre parole, Woland è il diavolo.

Con lui, ci sono personaggi assurdi come Behemot, il gatto parlante, Korov’ev l’impacciato servitore tuttofare, Azazello il pericoloso esecutore di “lavori sporchi”, Hella la cameriera-strega e infine Abadonna, l’“esperto” di tenebre e morte.

In pochi giorni, Woland e la sua pittoresca corte mettono a soqquadro una Mosca vivace e insolita che facciamo fatica a credere che sia esistita ai tempi di Stalin, ma il rumore, il chiasso sono un’appendice, un contorno che purtroppo si esprime alle spalle di una storia molto triste: la storia di Margherita e il Maestro, appunto.

Di Margherita sappiamo poco o nulla fino a quando, ad un certo punto, nel contesto chiassoso agitato da Woland, Ponyrev non conosce in clinica un uomo che come lui ama scrivere: il Maestro. Costui è stato recluso in seguito ad un triste episodio che lo ha visto disperarsi in seguito ad una recensione spietata del suo ultimo libro, un libro dedicato a Ponzio Pilato.

Ma non è tutto: tra le mura della clinica, il Maestro ha cominciato a soffrire la mancanza di colei che ha potuto salvarlo dalla morte, una donna che finalmente, in una notte bizzarra e malinconica, ci appare grazie ad un ricordo:

“L’amore è balzato davanti a noi dal nulla, come un assassino in un vicolo, e ci ha colpiti entrambi, nello stesso istante. Così colpisce la saetta, così colpisce il coltello a serramanico, Ma lei, in seguito sosteneva che non era successo così, e che noi ci amavamo già da tanto, tanto tempo prima, senza conoscerci, senza esserci mai visti; e che lei viveva con un altro uomo…e anch’io là, con quella, come si chiamava…”

“Con chi?” Domandò Bezdomnyj

“Con quella…sì…con quella…” rispose l’ospite schioccando le dita.

“Era sposato?”

“Ma sì, per questo faccio schioccare le dita…Con quella…Varen’ka, Manecka…no Varenka…un vestito a righe, il museo…non mi ricordo.

“E così lei diceva che quel giorno era uscita con i fiori gialli tra le braccia perché io finalmente la trovassi e che, se non fosse accaduto, si sarebbe avvelenata, perché la sua vita era vuota.

“Sì, l’amore ci aveva colpiti all’istante. L’ho saputo quel giorno stesso, un’ora dopo, quando ci siamo trovati, senza accorgerci della città intorno a noi, sul lungofiume, sotto le mura del Cremlino.”     

Margherita si presenta a noi quindi in un secondo momento, l’attesa che viviamo ci consente di ammirarla, di desiderarla e quando infine ella si presenta sul “palcoscenico” ideato da Bulgakov, il suo destino (e quello del Maestro) si intrecciano ai desideri di Woland, il diavolo.

Del grande ballo al quale Margherita parteciperà e del suo accordo con il Maligno non scriverò non solo perché il destino della storia d’amore che la vede protagonista dipende proprio dalla scelta di Margherita ma anche perché rischierei di rivelare qualcosa che non posso spiegare: un aspetto intimo, non evidente che io ho visto in un certo modo e che ogni lettore deve cogliere autonomamente.

Che cos’è, in conclusione, “Il Maestro e Margherita”? Senza ombra di dubbio è, innanzitutto, un grande affresco: un dipinto realizzato su una tavola irregolare, la quale può rappresentare una metafora, diciamo così, di tutti i sentimenti umani e delle loro più turpi rappresentazioni.

Ma non solo.

“Il Maestro e Margherita” è, in effetti, una critica alla censura (di cui Bulgakov riesce a farsi beffe, nonostante il regime in cui vive) poiché essa è la rovina di tutti i grandi spiriti (liberi), nonché, non casualmente, del Maestro.

Inoltre, “Il Maestro e Margherita” è la storia di Ponzio Pilato e degli ultimi giorni di un Gesù insolito, è la storia che ha quasi fatto impazzire il Maestro e, naturalmente, è una storia d’amore; forse, la più grande storia d’amore che sia mai stata raccontata.

La grandezza dell’opera di Bulgakov risiede proprio nell’aver saputo attingere ispirazione e situazioni direttamente dallo scibile letterario dell’umanità. Vi si ritrovano perciò tematiche e questioni teologiche, ma anche filosofiche ed antropologiche (rintracciabili proprio nelle caratteristiche dei personaggi “terreni” e della società sovietica e dell’umanità tutta).

Nel romanzo, quindi, non c’è solo l’Unione sovietica e uno spirito divergente che si oppone alla censura, ma Gesù, Ponzio Pilato che ha dei dubbi, Faust (naturalmente) e, inutile ripeterlo, una declinazione dell’amore che a breve troverà (forse) una spiegazione.

Le interpretazioni dell’opera sono state notevoli (come spesso accade di fronte a capolavori senza tempo come, appunto, “Il Maestro e Margherita); ciononostante, come già ho avuto modo di anticipare, il romanzo più famoso di Bulgakov è uno schiaffo in faccia, a mio modesto parere, ad una visione che forse l’autore non avrebbe potuto prevedere: un’interpretazione dell’amore fine a sé stesso.

Sebbene io abbia smesso di credere all’ovvio, alle manifestazioni più scadenti di un sentimento che il presente ha piegato addirittura alle esigenze del mercato, nell’ardore di una donna che sceglie di celebrare e salvare il proprio uomo accettando addirittura di stringere un patto con il diavolo non vedo solo il rovesciamento di Faust, né semplicemente una grande donna ma un sentimento genuino e incondizionato che non conosce ostacoli.

Se, quindi, Margherita è colei che sfida, in un certo qual modo il diavolo e accetta di giocare al suo tavolo, l’Oggi che cos’è? È Margherita? È il diavolo? O il risultato di un calcolo consumistico non riuscito?

Temo il risultato di un calcolo consumistico non riuscito.

Insomma, Margherita è la vittoria su un tempo usurato dalla convinzione per cui “le farfalle nello stomaco” sono tutto, è la vittoria contro le apparenze dietro le quali ci si nasconde spesso, è la vittoria contro i vuoti che vengono riempiti con chiunque, è la vittoria contro la paura di deludere le aspettative sociali, è la vittoria contro i ricatti che emergono nelle coppie e che le costringono a vivere vite insipide e vuote.

Forse, sarò indubbiamente ingenuo a credere che possa esistere una forma di amore elevato come quello che mi ha salvato leggendo Bulgakov (non lo escludo) ma se è vero che “uno scrittore non può fumare” come mi hanno ricordato al centro antifumo, un uomo come me non può pensare che la banalità possa soddisfare le sue esigenze.

Forse, e ribadisco, forse, sarò ingenuo a pensare che il tempo aggiusti tutto e che un pizzico di banalità possa allievare il dolore ma come dissi presentando un racconto che ho scritto (la cui protagonista si chiama Margherita) “a ventotto anni le tette non bastano più”.

Mi sia concesso a questo punto un chiarimento definitivo: nella mia divergenza, (o nella mia follia), dubitare a volte della possibilità di scoprire la letteratura farsi carne e sangue è normale (se foste stati abbandonati senza un motivo credibile capireste cosa intendo), per cui non ho vergogna di manifestare una perplessità che nonostante tutto non riesce a vincere la battaglia del mio cuore contro la meraviglia: forse, e ribadisco la parola “forse” per l’ennesima volta, nello scontro apparentemente senza fine che percepisco essere in atto può avere infatti senso qualcosa che stimo, qualcosa che, non per errore, non è di certo banale (o peggio, scontato come il presente).