No grazie, i pass mi rendono pensieroso (versione integrale)

“Il Green pass è una misura con cui gli italiani possono continuare ad esercitare le proprie attività, a divertirsi, ad andare al ristorante, a partecipare a spettacoli all’aperto, al chiuso, con la garanzia, però, di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose.”

Così, parlò Mario Draghi il 22 luglio 2021.

Così, il Presidente del Consiglio dei ministri ci promise non solo che avremmo affrontato con serenità la stagione invernale ma che il Green pass ci avrebbe consentito di far ripartire l’economia…

Ma è stato veramente così?

Per quanta riguarda l’economia dobbiamo mettere immediatamente in chiaro una cosa: a prescindere dai toni euforici che descrivono “l’Italia il paese dell’anno”, bisogna ricordare che il + 6 (virgola) del Pil è un semplice fenomeno detto “di rimbalzo” rispetto all’andamento del 2020 (dove il PIL è sceso del 9%).

Cosa succederà nel 2022 non possiamo ancora saperlo con certezza ma, i primi dati di Confesercenti e Confcommercio ci dicono che “crollano i consumi perché non mancano solo i non vaccinati all’appello (della ripresa) ma anche i turisti.”

Molti esercizi, in altre parole, chiudono non solo a causa dei contagi (tra persone vaccinate e persone non vaccinate) ma anche a causa di un insieme di regole estremamente complesse e contradditorie che inevitabilmente mettono in difficoltà anche chi potrebbe, teoricamente, usufruire di determinati servizi.

Ora, a prescindere dalle criticità di natura giuridica del “Green pass” e del “Super Green pass” che vedremo tra poco, c’è quindi un elemento di natura scientifica che ha iniziato a scontrarsi con la logica: il “Green pass” e il “Super Green pass” non creano ambienti sicuri a prescindere.

Certo, possiamo ricordarci che chi è stato vaccinato non contrae (sempre) il Covid-19 in forma grave ma non possiamo più credere che un pass sia una garanzia di continuità nel proseguimento delle attività economiche.

In ogni caso, il “Green pass” e il “Super Green pass” confliggono direttamente (e indirettamente) con ben sei (6) articoli della Costituzione italiana. Vediamo quali…

Innanzitutto, il “Green pass” e il “Super Green pass” violano l’articolo 3:

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Nello specifico, a violare in modo particolare l’articolo appena ricordato è il “Super Green pass”, poiché non comporta un’alternativa alla vaccinazione per poter svolgere determinate attività.

Per comprendere attentamente il tema facciamo un passo indietro e ricordiamo come si espresse la CEDU in seguito al ricorso di 600 vigili del fuoco francesi che invocarono un provvedimento cautelare per tutelare una presunta violazione dei loro diritti fondamentali in seguito all’adozione del “Green pass” in Francia.

Nella sentenza in questione, la CEDU non si espresse nel merito della compatibilità tra l’obbligo vaccinale e l’ordinamento costituzionale di riferimento.

Nello specifico, infatti, la CEDU si basò sull’art. 39 del suo Regolamento e dichiarò che il provvedimento cautelare invocato dai vigili del fuoco poteva essere adottato solo in via urgente e provvisoria e solo nel caso in cui i diritti segnalati dal ricorrente fossero sottoposti ad un rischio reale e imminente di un danno irreparabile.

Siccome però, il modello francese in quel momento contemplava la possibilità di non sottoporsi ad una vaccinazione, la Corte ritenne che il margine di discrezionalità in questione facesse decadere automaticamente l’irrinunciabile condizione evidenziata.

In breve: esistendo un’alternativa al vaccino per ottenere il “Green pass”, (il tampone), non si è ritenuta esistere una violazione di quei diritti fondamentali che i vigili del fuoco ritenevano fossero stati violati.

La scelta di non vaccinarsi, a prescindere dal rapporto costi-benefici, è un dato sensibile sulle convinzioni personali del cittadino e il decreto che introduce il “Super Green pass” per accedere ai luoghi di lavoro non solo contraddice i princìpi appena ricordati dalla CEDU ma anche un combinato disposto fra codice in materia di protezione dei dati personali e regole del Garante sul trattamento di particolari dati.

In ogni caso, sul tavolo resta aperto il seguente nodo: il “Super Green pass” crea una sostanziale differenza tra cittadini sulla base di una libera scelta (fino a prova contraria, infatti, vaccinarsi non è ancora obbligatorio).

La discrepanza già esisteva con il “Green pass” (base) poiché già esso, imponeva al cittadino un trattamento invasivo (il tampone); ma, a prescindere ormai dal tampone (che in ogni caso poteva essere comunque considerato un momentaneo compromesso, nonostante l’onere a carico del cittadino), ora il “Super Green pass” non permette più scuse.

In altre parole: se da un lato, il principio di uguaglianza formale (comma 1, art. 3 della Costituzione) si traduce in un divieto per il legislatore ordinario di adottare trattamenti irragionevolmente differenziati tra i cittadini, il principio di uguaglianza sostanziale (comma 2, art. 3 della Costituzione) esprime un impegno che dovrebbero rispettare le Istituzioni affinché si rimuovano tutti quegli ostacoli che impediscono “il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

La questione, quindi è: il “Green pass” e il “Super Green pass” rimuovono tutti quegli ostacoli che impediscono “il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”?

Credo, personalmente, di no. Ripeto, non solo perché introducono delle sostanziali differenze sulla base di una libera scelta, ma anche perché scientificamente non garantiscono, come abbiamo potuto ampiamente notare una sicurezza assoluta (che in questo caso non solo deve essere certa ma deve essere anche supportata da dati attualmente non disponibili).

“Filosofia”, dirà qualcuno. Rispondo subito: si, filosofia e trasparenza, colonne portanti di riferimento per ogni azione politica in un paese democratico.

 

Ma, il “Green pass” e il “Super Green pass” non violano direttamente solo l’art. 3 della Costituzione ma anche l’art. 4 della Costituzione:

“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”

Per comprendere come e perché il “Green pass” e il “Super Green pass” violano l’articolo 4 della Costituzione, è opportuno cominciare dalla fine: ossia dalle motivazioni a sostegno del “Green pass” e del “Super Green pass” per accedere ai luoghi di lavoro.

Quando si cominciò a chiedere il “Green pass” (base) per accedere ai posti di lavoro, da più parti si è difesa la legittima costituzionale del Green pass adducendo motivazioni apparentemente inconfutabili: il “Green pass” crea ambienti sicuri e di conseguenza favorisce ampiamente l’eliminazione di tutte quelle situazioni che bloccano o limitano la crescita professionale dell’individuo e la sua libertà di esprimere al meglio le proprie competenze…

Insomma, per alcune settimane si è davvero creduto che l’introduzione dell’obbligo del “Green pass” nell’ambiente di lavoro potesse rispondere positivamente, sia all’aspetto relativo la sicurezza, sia a quello concernente il miglioramento della vita lavorativa e a contribuire, in definitiva, alla sospirata normalizzazione dell’ambiente di lavoro dopo due lunghissimi anni di agonia… ma è stato davvero così?

Nelle settimane prima di Natale, l’ISS ha ampiamente dimostrato che l’efficacia del vaccino anti Covid-19 cala drasticamente dopo 6 mesi e come conseguenza di questa evidenza si è dimostrato che anche chi ha ricevuto due dosi di vaccino anti Covid-19 può contrarre la malattia e trasmetterla.

Certo, per questo, affermerà qualcuno, il “Green pass” ha una scadenza ma questa scadenza è basata su quali dati attualmente? Perché inizialmente il “Green pass” riconosciuto in seguito alla vaccinazione durava 9 mesi e poi la sua validità è stata abbassata a 6? (Se non è sperimentazione questa)…

Pochi giorni fa, giovedì 13 gennaio, L’EMA ha dichiarato quanto segue: “Avere troppa fretta nel rafforzare la campagna di vaccinazione al Covid-19 con richiami eccessivamente ravvicinati, potrebbe avere l’effetto opposto, ossia sovraccaricare la risposta immunitaria”.

Se così fosse, se richiami eccessivamente ravvicinati sovraccaricassero la risposta immunitaria, si potrebbe dunque ancora continuare a ritenere vincolante il “Super Green pass” per accedere ai luoghi di lavoro? (Considerando, ripeto, che questo non crea sempre e in termini assoluti luoghi effettivamente sicuri)…

Il “Super Green pass” non è un casco di protezione, né una cintura di sicurezza: è uno strumento profondamente vincolante che non garantendo una sicurezza definitiva rischia non solo di “sovraccaricare” la risposta immunitaria ma anche di compromettere la possibilità di esprimere serenamente la propria personalità.

In altre parole: il precetto costituzionale custodito dall’articolo 4 della Costituzione deve essere letto anche nel senso di favorire l’eliminazione di tutte quelle situazioni che bloccano o limitano la crescita professionale dell’individuo e la sua libertà di esprimere al meglio le proprie competenze.

Si, resta sempre il dubbio sulla condizione scientifica che potrebbe portare, ai sensi dell’art.2087 del Codice civile, i datori di lavoro a chiedere il “Super Green pass” ai propri dipendenti anche in assenza di uno specifico obbligo di legge ma questa condizione scientifica, torno sul punto, esiste?

Ad ora, le maggiori evidenze riscontrate ci dicono che il vaccino e quindi la detenzione del “Super Green pass” evita, nella maggior parte dei casi, un decorso pericoloso della malattia ma non abbiamo nessuna prova (anzi) che il vaccino e il “Super Green pass” limitino la diffusione del virus.

Le condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro possono quindi essere rafforzate continuando la promozione di dispositivi di protezione come le mascherine FFP2 senza un’imposizione de facto di un obbligo che non prevede adeguate coperture in materia di risarcimento in casi di effetti collaterali.

Il tema del “Super Green pass” sui luoghi di lavoro mette inoltre in dubbio anche un altro articolo della Costituzione, l’articolo 35:

“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.

Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori.

Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro.

Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla lege nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero.”

In modo particolare, il “Green pass” e il “Super Green pass” violano direttamente il comma 1 dell’articolo appena citato.

I limiti sono infatti notevoli e per approfondirli è opportuno ripartire da una serie di osservazioni in materia di gestione dei dati personali.

 

Sia pure con difficoltà applicative, chiedendo il “Green pass” (base) per accedere nei luoghi di lavoro si è riusciti a salvaguardare un duplice principio: non deve essere il datore di lavoro (bensì il medico competente) a sapere qual è la situazione personale del lavoratore rispetto al Covid-19.

La ragione? Con il “Green pass” base, infatti, il datore di lavoro ha ricevuto fino ad ora un’informazione neutra, poiché il “Green pass” in questione poteva essere ottenuto anche mediante tamponi dall’esito negativo.

In parole povere: per il datore di lavoro sapere che un lavoratore aveva il “Green pass” non significava necessariamente avere la certezza che fosse vaccinato.

Con il “Super Green pass” non sarà però più così.

La verifica da parte del datore di lavoro porterà infatti alla conseguenza che ora il datore di lavoro saprà con certezza che chi non ha il “Green pass” valido appartiene ad una categoria ben specifica.

All’inizio del 2022, dopo la fortissima pressione legislativa e mediatica per la vaccinazione, il non essere vaccinati non è indicativo, infatti, solo di uno stato di salute: è un dato idoneo a rivelare opinioni e convinzioni.

Certo, le motivazioni e gli argomenti di questa posizione possono essere più o meno razionali e convincenti ma di tutta evidenza non appartengono più soltanto al campo delle scelte individuali rispetto ai trattamenti sanitari: hanno una valenza politica, sociale e oserei filosofica.

Dobbiamo domandarci quindi, con onestà intellettuale e ragionevolezza su cosa possa determinarsi oggi quel rischio di discriminazione che il senso stesso della protezione dei dati sensibili intende evitare. Questo è il punto.

Ma cosa prevede il GDPR? Quando e come un datore di lavoro può trattare dati sensibili su opinioni politiche o convinzioni personali dei lavoratori? La risposta non è semplice.

L’art. 9.2, lettera b) del GDPR dice che il trattamento di questi dati non è vietato se è necessario per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale, nella misura in cui sia autorizzato dal diritto dell’Unione o degli Stati membri o da un contratto collettivo ai sensi del diritto degli Stati membri, (purché in presenza di garanzie appropriate per i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato).

L’art. 9.2, lettera g) aggiunge che il trattamento di questi dati non è vietato se necessario per motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri, a patto che vi siano proporzionalità alla finalità perseguita, rispetto dell’essenza del diritto alla protezione dei dati e un’effettiva introduzione di misure appropriate e specifiche atte a tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato.

Dunque, il GDPR non esclude che un datore di lavoro possa trattare dati sensibili dei dipendenti se ci sono ragioni legate al diritto del lavoro o motivi di interesse pubblico rilevante che lo giustificano.

Tuttavia, in entrambi i casi appena descritti, occorrono garanzie appropriate e queste garanzie devono essere definite dalla normativa nazionale sulla base di una serie di evidenze tutt’ora, come abbiamo già visto, assenti.

In Italia, il codice in materia di protezione dei dati personali del 2018 ha individuato all’art. 2-sexies una lunga serie di motivi di interesse pubblico rilevante che giustificano il trattamento di dati sensibili; fra questi sono compresi l’igiene e sicurezza del lavoro e la sicurezza o salute della popolazione.

Oltre all’esistenza di norme (come il decreto anti-Covid-19) che specificano i tipi di dati che possono essere trattati, le operazioni eseguibili e il motivo di interesse pubblico rilevante, occorre che ve ne siano altre che definiscono altresì misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato.

Agli articoli 2-quater e 2-septies, il codice in materia di protezione dei dati personali prevede che le garanzie appropriate per i dati sensibili debbano venire per tutti i dati sensibili da regole deontologiche promosse dal Garante; inoltre, per i dati genetici, biometrici e relativi alla salute, da misure di garanzia definite dal Garante.

Dunque, in Italia, non è affatto escluso che il Governo, di fronte a motivi di interesse pubblico rilevante, possa varare norme d’urgenza che impongono una raccolta di dati sensibili dei lavoratori da parte dei datori di lavoro.

Tuttavia, questo può e deve avvenire in un preciso sistema di pesi e contrappesi, dove i contrappesi dovrebbero essere definiti dalle regole deontologiche promosse dal Garante.

Fra le regole deontologiche affidate all’iniziativa del Garante (ma non ancora esistenti), l’art. 111 del codice in materia di protezione dei dati personali ne prevede di specifiche per trattamenti nell’ambito del rapporto di lavoro per finalità di assunzione, esecuzione del contratto di lavoro.

Tuttavia, c’è un problema, e non è un problema indifferente: come abbiamo appena sottolineato, queste regole deontologiche sul trattamento dei dati personali nel rapporto di lavoro (paradossalmente) non ci sono, perché il Garante (costretto da due anni a un impegno straordinario anche per impedire che i continui decreti d’urgenza dei governi entrino in conflitto con le norme privacy) non le ha ancora, di fatto, predisposte.

Attualmente, quindi, un datore di lavoro dovrebbe trattare dati su opinioni politiche e convinzioni personali dei lavoratori nel rispetto del regime transitorio definito dal provvedimento del Garante del 5 giugno 2019 recante le prescrizioni relative al trattamento di categorie particolari di dati, provvedimento che produce effetti fino all’adozione, per le parti di pertinenza, delle regole deontologiche.

Cosa significa? Significa che, in base a questo provvedimento tuttora in vigore, il datore di lavoro può trattare dati che rivelano le convinzioni del lavoratore esclusivamente in caso di fruizione di permessi in occasione di festività religiose o per le modalità di erogazione dei servizi di mensa o, nei casi previsti dalla legge, per l’esercizio dell’obiezione di coscienza; certo, il datore di lavoro può  altresì trattare dati che rivelano le opinioni politiche del lavoratore ma esclusivamente ai fini della fruizione di permessi o di periodi di aspettativa riconosciuti dalla legge o, eventualmente, dai contratti collettivi anche aziendali nonché per consentire l’esercizio dei diritti sindacali.

Il meccanismo del decreto-legge 1/2022 viola, pertanto, il combinato disposto fra codice in materia di protezione dei dati personali e prescrizioni del Garante relative al trattamento di categorie particolari di dati.

Certo, poiché il trattamento avrà inizio il 15 febbraio, è possibile che il Garante effettui un’integrazione del provvedimento citato, includendovi questa casistica e legittimandola sul piano formale…ma…

Ma se questo accadrà non saremo certo di fronte a un intervento meditato, bensì di fronte all’ennesimo esercizio di paziente collaborazione del Garante nei confronti di un Governo che omette di consultarlo sui temi di sua competenza.

La verità è nell’equilibrio normativo fra il GDPR e il codice in materia di protezione dei dati personali e il datore di lavoro non andrebbe di conseguenza posto in condizione di sapere che un suo dipendente non vuole vaccinarsi. Purtroppo però, considerati i fatti, la minoranza che non si vaccina è attualmente ritenuta ingiustamente dal Governo, dai media e da una cospicua maggioranza di chi si vaccina portatrice di danni collettivi e il fatto che il datore di lavoro conosca questa scelta del lavoratore (anzi, ne abbia un’evidenza oggettiva e documentale) può generare una discriminazione, magari non immediata, magari non evidente, ma difficilmente contrastabile.

Il tema, in conclusione non è l’“obbligo vaccinale”, (non solo), ma la reiterazione di un meccanismo dove la verifica di rispetto dell’“obbligo vaccinale” è sostanzialmente scaricata sui datori di lavoro.

Sono innegabili sia l’emergenza di salute pubblica sia la fondamentale necessità di adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza.

Ciononostante, uno Stato che per ottenere i risultati appena ricordati coinvolge i datori di lavoro deputandoli a una verifica che tocca convinzioni personali e opinioni politiche dei lavoratori, implicitamente dichiara di non avere strumenti per controllare il rispetto delle nuove norme (col risultato di innescare dinamiche destinate a fare della minoranza un capro espiatorio).

In definitiva, il tema del “Super Green pass” per lavorare non pone semplicemente un problema formale di congruenza fra norme, ma anche un problema di trasparenza.

 

Indirettamente, il “Green pass” e il “Super Green pass” minacciano anche l’articolo 21 della Costituzione, nello specifico il primo comma:

“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di informazione.”

Dopo la fortissima pressione legislativa e mediatica per la vaccinazione, il non essere vaccinati, come abbiamo già visto non è solo indicativo di uno stato di salute: il non essere vaccinati, rischia infatti di essere un dato idoneo a rivelare opinioni e convinzioni.

Ripetiamo: le motivazioni e gli argomenti della posizione appena descritte possono sicuramente essere più o meno razionali e convincenti ma di tutta evidenza non appartengono più soltanto al campo delle scelte individuali rispetto ai trattamenti sanitari poiché hanno una valenza politica, sociale e ribadisco filosofica.

Di conseguenza, l’utilizzo improprio dell’appellativo “no vax” può diventare a tutti gli effetti uno stigma sociale forte.

Per evitare quindi un discrimine e quindi una violazione diretta o indiretta del primo comma dell’articolo 21 è necessario, di conseguenza, il ripristino di una comunicazione realmente pluralistica, dove le voci diverse da quelle di un coro autorizzato darebbe la possibilità di poter confrontare differenti ipotesi di realtà, differenti visioni future e differenti sviluppi di vita possibili per fronteggiare scenari profetizzati come apocalittici ed inevitabili.

Va da sé che è nella teoria che emerge da un confronto che si possono comprendere i dati.

Il punto, quindi, è che non è possibile negare la parola a prescindere, sarebbe sbagliato e controproducente.

Allo stato attuale l’espressione di un’opinione non allineata con il mainstream non appare praticabile senza ritorsioni, minacce o pubbliche gogne mediatiche: una voce dissonante viene inevitabilmente etichettata come fake news o complottismo, immediatamente aggredita e processata non attraverso seri e più che leciti dibattiti ma con ostracismo radicale a priori dal sistema mediatico.

Ciononostante, non bisognerebbe dimenticare che in un sistema democratico e garantito da una Costituzione, nessuno dovrebbe imporre come e dove attingere le informazioni, trattando di fatto il destinatario come un infante ingenuo e non in grado di intendere e di discernere.

Occorre aggiungere che l’“aggressione” indiretta all’articolo 21 della Costituzione è altresì un “aggressione” al primo comma dell’articolo 33 della Carta: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.”

Perché? Per quanto riguarda l’arte, è subito spiegato: le ragioni di una possibile “aggressione” al libero esercizio dell’arte sono le medesime che inficiano la libertà di espressione previste dall’art.21: può esserci, da parte di un’artista la possibilità di esprimersi liberamente su un argomento senza il timore di un linciaggio pubblico alla sua persona?

Per quanto concerne invece la scienza si rende necessaria una domanda: può esserci trasparenza e normale conduzione della vita democratica in un contesto globale dove le case farmaceutiche detengono un potere contrattuale più forte di quello degli Stati?

Nel numero 1439 de “L’Internazionale” (“Lo strapotere della Pfizer”) è emerso infatti un quadro preoccupante del modus operandi con il quale l’azienda farmaceutica statunitense domina il mercato e i rapporti con le Istituzioni.

“Formalismi” penserà qualcuno che dimentica quanto ci si è spesi per garantire fin dai tempi di Rockfeller delle normative in materia di antitrust e lobbying…

In conclusione: la risultante di una comunicazione a senso unico e priva di criticità è un’informazione monocolore, che non solo spinge sui pedali dell’uniformità di pensiero attraverso la paura, ma che snatura di fatto la ricchezza e l’evoluzione della cultura e atrofizza la libera ricerca ed espressione di sé.

E’ ovvio che non può esserci confronto tra chi sostiene una teoria sulla base di una serie di evidenze e chi mescola delle opinioni contradditorie e frammentarie ma se è vero che l’evidenza fa emergere da un dibattito la verità non può esistere timore alcuno dei risultati.

In sintesi: anche il Governo e i mass media hanno spesso strumentalizzato i dati e spacciato per verità assolute convinzioni che sono state smentite dai fatti.

Un esempio? Le parole del Presidente del Consiglio dei ministri il 24 novembre: “Con il “Super Green pass” salveremo il Natale…”

Ora, per quanto istituzionali potessero sembrare queste affermazioni, con il senno di poi si possono ritenere affidabili? O si possono paragonare ad opinioni frammentarie degne dell’ultimo dei complottisti?

 

Veniamo ora all’articolo 32 della Costituzione:

“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.” 

Apparentemente “Nulla quaestio”: Il Green pass è una misura con cui gli italiani possono continuare ad esercitare le proprie attività, a divertirsi, ad andare al ristorante, a partecipare a spettacoli all’aperto, al chiuso, con la garanzia, però, di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose.”

Ma è stato veramente così? Inutile ripeterlo: no.

Il “Green pass” e il “Super Green pass” hanno quindi effettivamente tutelato la salute? Se una persona vaccinata può trasmettere e contrarre il virus Sars-Cov-19, possono il “Green pass” e il “Super Green pass” proteggere? Qualcuno direbbe che possono proteggere chi non li possiede, ma stesso discorso si può fare per chi è fragile e comunque li possiede?

Il tema dell’obbligatorietà è già stato ampiamente sviluppato recentemente ma la recente introduzione dell’obbligatorietà per chi ha più di 50 anni e non lavora ha riaperto inevitabilmente il dibattito.

Di primo acchito, l’obbligatorietà per chi ha più di 50 anni incontra l’esigenza di tutelare chi è teoricamente maggiormente esposto ad un decorso pericoloso della malattia; ma può quest’obbligo ritenersi legittimo senza una preventiva revisione del consenso informato?

La giurisprudenza degli ultimi decenni della Corte costituzionale ha ritenuto incostituzionale tutte le norme di obbligo vaccinale che non contenessero anche disposizioni sulla necessità di indennizzo, per cui, attualmente, l’obbligo vaccinale per chi ha più di 50 anni (e non solo) è un obbligo incompleto e profondamente lesivo di un dettato giuridico ed etico che prima o poi la Consulta dovrà affrontare…

 

Riassumendo: pur riconoscendo le difficoltà pratiche che si possono incontrare nella gestione di una pandemia, non è possibile ignorare quei limiti di natura politica, sociale e culturale che sono stati ampiamente superati.

Delegittimazione delle minoranze, dilagante scientismo, pressapochismo comunicativo, propaganda a senso unico, delegittimazione della politica e del Parlamento, incauto utilizzo di misure fortemente divisive e poco pratiche, inflazione normativa e assenza di un reale piano di risanamento dell’apparato sanitario pubblico non sono problemi che ho inventato io e non sono problemi che riguardano soltanto chi possiede il “Green pass” e il “Super Green pass”.

La Costituzione, esattamente come il diritto alla salute non sono, infatti, prerogative di una sola fazione bensì strumenti a disposizione di tutti i cittadini, senza limitazione e differenze.

Allo stesso modo, sono strumenti a disposizione di tutti i cittadini, senza limitazione e differenze, il diritto ad un’informazione trasparente e il diritto espressione.

Ricordare quanto possa essere complesso un fenomeno è, di conseguenza, non solo un obbligo morale ma un dovere civico poiché comporta, inevitabilmente, un’attenzione costante per tutti quei processi essenziali per il corretto funzionamento di una democrazia matura.