I limiti e i paradossi dei sindacati italiani

In un paese che sopravvive, un paese dove gli italiani a rischio povertà sono, secondo Unimpresa, quasi nove milioni, i sindacati aspettano.

Ma cosa aspettano, esattamente? Un lavoro che manca per davvero? O delle risorse che non sono effettivamente redistribuite in modo efficiente?

Posto che il lavoro non si crea solo con i premi, i bonus, i decreti legge, il miglioramento delle condizioni di vita si ritiene che possa derivare in modo duraturo dall’iniziativa privata, dall’impegno e dal lavoro dei singoli, dall’aumento degli scambi, dagli investimenti in ricerca e sviluppo, ossia dalla scelta di soluzioni  a lungo, lunghissimo termine a vantaggio dei palliativi e dei contentini elettorali.

Sono troppe oggettivamente le risorse che lo Stato sottrae all’economia e non utilizza in maniera adeguata e questo, naturalmente, oltre a impedire lo sviluppo di duraturi rapporti commerciali rallenta la crescita economica, (l’Istat ha rilevato che a marzo il tasso di disoccupazione è risalito all’11,7% con un aumento di 0,1 punti rispetto a febbraio e di 0,2 punti rispetto a marzo 2016).

Ora, la prova che nessuno sa dove andare (o nessuno vuole sapere dove andare, perché è più facile inventare decreti per recuperare consensi che progettare un sistema vicino alle imprese) non si può osservare solo dai dati di cui sopra ma anche dalla cosiddetta politica dei “no” a prescindere che ormai anticipa ogni possibile discussione.

Come ignorare, in effetti, il fatto che i governi degli ultimi anni, indipendentemente dal colore, abbiano introdotto nel mondo del lavoro non strumenti destinati a sostenere l’imprenditoria nel lungo termine ma numerosi leggi ed adottato soluzioni che non hanno fatto altro che alzare sempre più il livello di precarietà?

E come ignorare il fatto che la CGIL possa gioire dell’abrogazione di strumenti, i voucher, sui quali solo 2016  ha investito ben 750 mila euro per pagare i  dipendenti che prestano servizio presso le proprie sedi?

In parole povere, come possiamo spiegare la coerenza di realtà guidate da figure come quelle di Susanna Camusso le quali paragonano i voucher ai “pizzini dei mafiosi” se esse stesse si contraddicono e ne  incoraggiano l’utilizzo (usufruendone)?

Oggi i sindacati hanno decisamente perso di credibilità, si sono resi incapaci di combattere il mondo del precariato nelle sedi opportune, di fronteggiare l’incertezza e la mancanza di continuità lavorativa e sociale ma soprattutto di rispondere in maniera concreta alle difficoltà di commercianti, artigiani, piccole e medie imprese costrette a chiudere a causa di problemi senza dubbio complessi ma che sempre più spesso sono oggetto di strumentalizzazione ideologica.

Se, in conclusione, possiamo pensare il precariato come un’opportunità solo in determinati settori e solo se a condizione che la mobilità sia sinonimo di apprendimento e di conseguente crescita professionale, allora perché non possiamo superare il sindacato che esiste e favorire un’educazione partecipativa dei lavoratori alla gestione aziendale come in Germania?

Se, l’Italia e le imprese hanno, in parole diverse bisogno di risorse, (non solo finanziarie ma anche umane), perché non possiamo riflettere seriamente la ridefinizione di un organismo ormai più ingessato e burocratizzato di un partito?