Conflitti linguistici di ieri e di oggi

Dopo aver letto l’ennesimo articolo pieno zeppo di parole inglesi, mi sono più volte domandato se l’uso sempre più frequente appunto di termini stranieri da parte degli italiani non fosse un’abitudine da condannare ma, al contrario, un naturale processo storico da osservare con oggettività.

In altre parole, dopo aver osservato come paradossale sia scrivere con parole inglesi di cucina italiana, ho provato a mettere in discussione una convinzione che ho da tempo a proposito del fatto che l’uso appunto di parole inglesi indebolisca non solo la nostra lingua ma anche il nostro pensiero ma, malgrado le mie migliori intenzioni, ancora una volta non ho potuto fare altro che confermare le mie opinioni.

Liquidare tuttavia la questione ad un mero confronto tra “puristi” e “innovatori” della lingua temo sarebbe scontato e, addirittura, controproducente e non già perché presterebbe il fianco a tutti quei fanatici che pretendono di ridurre ogni questione complessa ad uno scontro tra bande ma perché, -nondimeno-, non ci aiuterebbe a capire il senso della direzione che abbiamo probabilmente intrapreso.

Ma come potremmo, oggi, tentare di fare a meno di ogni presunzione ideologica quando si discute di qualcosa? Una riflessione che tenga conto non solo di ciò che siamo ma anche ciò che siamo stati può forse aiutarci a combattere la tentazione di incoraggiare ogni risposta scontata?

Pur non essendo semplice rispondere alle domande appena osservate credo che ricordare in questa sede alcuni fondamentali punti di svolta della storia della letteratura possa essere d’aiuto.

Di Dante Alighieri è stato scritto tutto e il contrario di tutto ma di Francesco Petrarca, al contrario, pochi conoscono quelle contraddizioni utili a riflettere sul significato più profondo che ha il cambiamento di una lingua ed è proprio da Francesco Petrarca che ritengo sia opportuno cominciare ogni valutazione che pretenda di spiegare il rapporto dell’italiano con le altre lingue.

Francesco Petrarca, infatti, non fu solo un pioniere della letteratura rinascimentale e della cultura umanista ma altresì autore la cui contraddizione non può certo lasciare indifferenti.

Considerato a pieno titolo uno dei padri della lingua italiana, l’autore del Canzoniere scrisse molto poco in volgare perché a suo dire il volgare era una lingua che rappresentava la corruzione di un’epoca ben precisa: la sua.

Il fatto quindi che Francesco Petrarca considerasse decadente il volgare e che la storia abbia smentito le sue convinzioni per cui il latino fosse al contrario il simbolo di quei valori classici ormai perduti potrebbe senz’altro convincerci del fatto che chi, come me, ritiene opportuno tutelare la lingua italiana, non sia molto lontano dal già citato poeta di Arezzo ma la situazione è come al solito molto più complessa.

La convinzione per cui il Medioevo sia un periodo oscuro dipende in effetti anche dallo stesso Francesco Petrarca, il quale, nonostante i suoi indiscutibili meriti, ha contributo ad alimentare l’idea per cui nei secoli tredicesimo e quattordicesimo si fosse perduto qualcosa. Non di meno, gli Umanisti e poi gli Illuministi hanno avuto un ruolo non diverso nell’azione di consolidare l’idea che il Medioevo sia stato appunto un periodo ben più terribile di quello che di fatto fu e sebbene il loro contributo sia stato importante nel determinare i caratteri del nostro presente, oggi non possiamo permetterci di non considerare il passato nella sua complessità.

L’uso di conseguenza di una terminologia straniera in contesti nei quali già esistono termini capaci di spiegare determinate cose o determinati pensieri può dunque essere visto come un segnale di rinuncia nei confronti di una complessità dalla quale talvolta preferiamo fuggire?

In un certo senso sì e non già perché, come ribadito, il linguaggio evolve (fatto comunque assodato) ma perché l’uso (se non addirittura l’abuso) di determinate parole indica una latente pigrizia che trova altresì conferma nella volontà di molti di non leggere più e di non approfondire la complessità della realtà in cui vivono.

Non diversamente, in una società nella quale le tendenze ormai stabiliscono non solo cosa fare ma soprattutto cosa pensare, non è possibile ignorare il fatto che l’uso stesso di termini in buona sostanza inutili indichi perciò una vera e propria tendenza o, più precisamente, non solo una già anticipata pigrizia nei confronti della realtà ma anche una più triste propensione nei confronti di un atteggiamento passivo.

A lamentarsi del fatto che le cose non funzionano sono più o meno tutti, (gli avvocati si lamentano dell’ultima riforma della giustizia, i professori dell’ultima riforma della scuola e una buona parte di chi ha un lavoro del fatto che lavorare è diventato sempre più stressante, malgrado con l’Intelligenza Artificiale avremmo dovuto tutti già cominciare a lavorare meno) ma nonostante tutto nessuno sembra avere interesse affinché qualcosa possa maturare.

La costante e in apparenza inesorabile perdita di attenzione nei confronti delle relazioni e della loro spontaneità non è infatti qualcosa che può essere curata chiedendo informazioni a Chat GPT bensì con un impegno che comporta tempo: lo stesso tempo che ci viene rubato ogni volta in cui preferiamo una risposta preconfezionata per un problema complesso.

La riscoperta della lingua italiana non è, in conclusione, un’azione conservatrice o, banalmente, volta a difendere certi valori come i fanatici del tifo da stadio vorrebbero sostenere ma un’azione in un certo qual modo capace di dire “no” alla fretta, ad uno stile di vita precipitoso e poco salutare che nessuno apprezza ma che troppi vivono.

In altre parole, la riscoperta della lingua italiana non è solo un atto divergente o in controtendenza né tantomeno un modo per rimarcare semplicemente la propria identità ma un’azione consapevole e capace di opporsi a una deriva in un contesto nel quale si può scoprire l’importanza della riflessione di fronte a tutto quello che subiamo nostro malgrado.