A proposito di “Bullshit jobs”, Intelligenza Artificiale e necessità inevase…
Mi sono imbattuto di recente in un’analisi dell’antropologo americano David Graeber, secondo il quale negli ultimi decenni sono esplosi i cosiddetti “bullshit jobs”, ossia occupazioni ben retribuite ma senza senso, superflue e addirittura dannose che anche chi le svolge non riesce a giustificare.
Certo, in apparenza la buona retribuzione a fronte di un’occupazione tutto sommato inutile (e quindi, si presume, priva di responsabilità) potrebbe essere considerata una conquista ma è davvero così?
Possiamo ritenere in effetti una conquista quell’inevitabile senso di frustrazione osservata appunto da David Graeber di fronte all’obbligo di fare qualcosa di inutile e di districarsi tra mansioni di burocrazia, supervisione e nuovi “job title” incomprensibili?
Un’analisi più attenta del mondo del lavoro oggi, alla luce anche di un articolo pubblicato sul “Corriere della sera” e dedicato alla richiesta di Google di aumentare le ore di lavoro agli ingegneri per vincere “la gara dell’AI”, suggerisce il contrario e suggerisce di conseguenza la necessità di un approccio al presente libero da ogni forma di condizionamento dogmatico.
Insomma, se consideriamo che nel 2025 si continua ancora a perseguire un modello lavorativo creato per fabbriche di un’altra era, ossia un modello definito intorno a otto ore ufficiali che in realtà consta poi di otto ore di lavoro effettivo, un’ora di pausa e una o due ore di pendolarismo, credo sia doveroso chiedersi a quale scopo si debba investire così tanto tempo nel lavoro nell’era in cui si propone l’automazione digitale come un modello di salvezza.
Allo stesso modo, se consideriamo che la tecnologia ha già trasformato i processi produttivi rispetto al passato in maniera radicale credo sia doveroso chiedersi se si mantenga vivo l’attuale sistema produttivo non già per necessità (o ragioni di efficienza) ma per perseguire una forma di controllo e credo sia doveroso chiedersi se non impegnarsi a cambiare una società stressata e sempre impegnata non faccia parte di una qualche volontà tuttora propensa a controllare le coscienze degli individui.
Se è senz’altro vero che persone stanche hanno meno energia per pensare criticamente, sviluppare progetti personali, costruire alternative ed evolvere interiormente, conservare un modello lavorativo di oltre cent’anni fa non è forse una scelta non solo inefficiente ma deliberatamente limitante?
Se è senz’altro vero che qualcuno trae beneficio dal mantenimento di questo sistema obsoleto come possiamo credere a chi un giorno afferma che con l’Intelligenza Artificiale lavoreremo meno e il giorno dopo propone di aumentare le ore di lavoro?
Un approccio olistico al problema fin qui descritto ritengo non possa dunque fare a meno di osservare lo studio di David Graeber e la scelta di Google come due aspetti dello stesso problema, ossia un problema che vede molte aziende affannarsi nel tentativo di dare per forza occupazione a persone che, se si occupassero (anche) di altro grazie ai benefici dell’automazione, potrebbero accendere il fuoco di un cambiamento non voluto.
L’inevitabile osservazione che il mio spirito critico ha fin qui osservato premia, però, un uso responsabile della tecnica e non la sua negazione e questo, come ricordato anche in altre sedi, comporta di conseguenza un ritorno a una valorizzazione dell’individuo e della sua creatività che al momento, non a caso, è carente.
Oggi, infatti, siamo alla mercè dei luoghi comuni, non abbiamo più il coraggio di dire qualcosa che sia scomodo, siamo soli, perennemente divisi e condizionati da facili approssimazioni che ci dividono, siamo messi gli uni contro gli altri e stessa la strumentalizzazione della cronaca nera per fare notizia e sensazionalismo lo dimostra (a cosa serve in effetti una cronaca priva di approfondimento del contesto sociale di un omicidio o, peggio, di un cosiddetto “femminicidio” se non a esacerbare delle differenze utili a valorizzare logiche di potere incentrate intorno al principio del “divide et impera”?).
Ma alla divisione, l’individuo che si ricopre capace delle proprie passioni può opporre tuttavia molto e lo può fare senza negare la collettività dentro la quale può definirsi grazie proprio a una valorizzazione prioritaria della propria persona.
Tuttavia, per permettere una reale riscoperta dell’individuo è necessario che lo stesso sistema educativo cambi e che (ri)cominci, dunque, a premiare la singolarità, la passione del singolo e il suo inevitabile desiderio di esprimersi.
Certo, non è semplice ammettere ciò che pochi ammetterebbero e io, chi afferma che gran parte delle problematiche attuali derivano dall’individualismo lo comprendo ma lo critico giacché fenomeni come quelli, ad esempio, della superficialità emotiva non dipendono spesso e volentieri dall’egoismo ma dall’incapacità proprio del soggetto di ascoltarsi, comprendersi e, infine, risolversi come un uno all’interno di un contesto più ampio senza però rinunciarsi.
Non diversamente, pur comprendendo altresì anche la riluttanza alla divergenza non posso non criticare chi vi si oppone dal momento che, se riconosciamo il raggiungimento di un punto di non ritorno dell’omologazione in un sistema in aperta contraddizione con ciò che pretende di essere mi risulta difficile non affermare la necessità di premiare la diversità come un fattore essenziale allo sviluppo (non solo economico).
In buona sostanza, a criteri ritenuti validi per ogni persona chi ha responsabilità gestionali e culturali dovrebbe opporre valutazioni innovative, audaci e senza dubbio, infine, utili non a subire la storia ma a farla.
Se non a caso per un attimo accettassimo di considerare il fatto che Donald Trump, Elon Musk e i paesi dei BRICS stanno definendo dei nuovi modelli di vita e di lavoro e che gran parte degli annunci politici sono spesso dettati da ragioni speculative di natura finanziaria possiamo ancora pensare seriamente che si debba soffrire di “fasciofobia”?
Pur essendo noto il condizionamento del mondo finanziario nelle scelte politiche e pur essendo evidente quanto l’annuncio di dazi da parte di Donald Trump e l’annuncio di riarmarsi da parte della Commissaria europea siano state operazioni utili per manovre finanziarie ancora continuiamo a evitare la contraddizione che ci vede appunto costretti a vivere un presente alienante, un presente spaventoso non tanto per ragioni politiche ma proprio perché la politica ha abdicato il suo ruolo.
Di conseguenza, l’accettazione di un tempo che dimentica la storia e pretende di spiegarsi appunto con imprecisati riferimenti a problemi talvolta fittizi temo ci metta nelle stesse condizioni di quel malato che per timore di capire il proprio male lo evita.
Siamo forse troppi? Siamo forse un male che prima o poi annienterà sé stesso? Può esistere davvero una soluzione che ci affranchi dalla nostra condizione di soggetti superflui per le elites?
Ho speranza nelle capacità dell’essere umano, specie se esse si esprimono, non per errore, nella solitudine per cui, in conclusione, a sterili vaneggiamenti che pretendono tuttora di descrivere Donald Trump come “il cattivo” e i democratici come “i buoni”, ritengo occorra opporre una discussione concreta, ragionata e che abbia inizio proprio osservando i nostri “bullshit jobs” così come a prodotti culturali edulcorati prodotti per non pensare ritengo occorra proporre novità sperimentali e che tornino a far pensare se non, addirittura, a fare male come un pugno nello stomaco.