Disarmonia

Nel momento in cui percepisco le mie mascelle prepararsi ad un boccone che mai conosceranno, comprendo di non essere soddisfatto.

Non riesco a definire l’esatta natura della sensazione appena descritta e, di conseguenza, non riesco a spiegare in maniera precisa cosa significhi, per me, percepire il “sapore” dell’insoddisfazione; ciononostante, credo sia comunque opportuno (ri)cominciare dalle mie mascelle e da quella insopportabile sensazione di spreco che mi costringo spesso a masticare.

Siccome ho sostituito da almeno sette giorni le sigarette con i toscanelli, è probabile che ciò che mastichi sia un ricordo del sapore che hanno le sigarette ma siccome non posso contraddirmi, mi affretto a spegnere immediatamente le fiamme del tormento con un esercizio facciale inappropriato e un sigaro.

Recuperare ciò che resta di un mezzo toscano iniziato ieri non è un’impresa difficile: con un gesto rapido e sicuro, afferro infatti il portasigari di radica che custodisco nella tasca interna del piumino, lo svito, afferro il fragile “premio” e lo accompagno alle labbra secche e stanche; con un gesto altrettanto deciso, brucio l’estremità già fumata e comincio quindi a soddisfare con moderazione le mie ultime mancanze.

Per un istante, il calore della fiamma mi disturba ma il profumo intenso e avvolgente che sprigiona il toscanello è, per fortuna, più potente di ogni piccolo fastidio e in meno di un minuto ciò che credevo di non riuscire quindi a gestire fugge nell’ombra, mi abbandona finalmente alla pioggia.

Spesso, nell’osservare un dettaglio, mi riscopro e riesco di conseguenza a vedere ciò che sono con distacco, come una parte; allo stesso modo vedo, (purtroppo o per fortuna) la civiltà e quando perciò mi ritrovo padrone di un attimo in cui stringo tra le dita la frenesia di Roma e Bologna non posso che domandarmi una sola cosa: dove stiamo andando?

Non sono sicuro del fatto che vivere in due o più luoghi contemporaneamente possa farmi bene; cionondimeno, non sono sicuro che vedere nello stesso istante il quartiere Prati, Via Stalingrado e, forse, Piazzale Loreto sia una fortuna ma non posso ignorare la contemporaneità e ciò che essa è.

Vedere con gli stessi occhi un giovane calabrese alla disperata ricerca di un affitto a Milano e un disperato bisogno di attenzioni a Roma, negli occhi di uno sconosciuto insicuro, non è, in effetti, un potere: è una maledizione.

Vedere (e percepire) cose simili ma distanti nello spazio mi spezza perché nel bene o nel male mi costringe a fare i conti con una realtà: ciò che so fare è inutile e in ogni caso non mi permette di restare nell’unico posto in cui avrebbe senso crescere: Roma.

Sarei davvero felice, care lettrici e gentili lettori, di rivelarvi il mio nome ma purtroppo ciò non è possibile. Tra voi, sono sicuro che il pensiero di individuare una traccia dell’uomo che mi ha costretto a rivelarmi si insinuerà e subito dopo sono sicuro che cercherete un senso in altri personaggi ma se mi presentassi per davvero vi costringerei a capire dettagli che non possono essere rivelati oggi, per cui abbiate pazienza, cercate al di là di ciò che avete già letto, cercate oltre ciò che leggerete e all’improvviso scorgerete un profilo non diverso dal vostro, un profilo che, sebbene non esista ancora, già conoscete.

La triste verità dalla quale non può prescindere la mia confessione, il baricentro della mia afflizione, se vogliamo, è che vivere a metà, care lettrici e gentili lettori, logora e spezza.

Non escludo che ci sia troppo “io” in ciò che fin qui ho descritto ma rinunciare ad esso, sebbene sia necessario, è difficile perché dopo tanto tempo significherebbe rinunciare ad una fragile opportunità.

Ha senso cominciare da una frase come “tutto ebbe inizio”? Non credo.

La mia storia ha avuto un principio, certo, ma adesso, nel momento in cui le mie mascelle si fanno sensibili e via Lepanto confluisce in via Cola di Rienzo, ricordare quando “tutto ebbe inizio” non ha senso.

“Le tue capacità sono straordinarie!” ma nessuno sembra apprezzarle per davvero, nessuno sembra comprenderle, anzi: la maggior parte di chi le nota sembra piuttosto temerle e come naturale risposta io non posso non interrogarmi, non continuare a cercare una risposta.

Tutto sembra contraddirsi, ancora una volta: guardo la vetrina di una gioielleria alla mia destra, evito un passante distratto, scorgo il profilo della Cassazione di fronte e a me e penso alla Mondadori, poco lontano; quindi cerco un ricordo in cui ho varcato le porte della libreria appena ricordata, non lo trovo, vedo allora una ragazza bellissima ignorarmi dall’alto della sua femminilità irresistibile e mi convinco che non si potrà mai smettere di avere dei dubbi.

Mentre attraverso la strada con passo sostenuto e continuo verso la Corte di Cassazione, penso che nel tempo ho imparato a sopportare tante cose e che non posso che essere soddisfatto per aver conquistato una forma di consapevolezza importante per la mia giovane età; certo, molto è ancora da fare ma già essere riusciti a rinunciare al fumo della sigaretta è per me una vittoria importante.

Scorgo alla mia sinistra il “Cicerone Hotel” e il maestoso ingresso non dissimile da quello di un albergo sulla “Fifth Avenue” mi ricorda tante cose ma soprattutto mi ricorda che Napoleone Bonaparte, non so perché, alla mia età comandava l’armata d’Italia.

“Cosa significa?” Grida una voce stridula in fondo al mio cuore.

“Non lo so.” Le rispondo ad alta voce.

Continuo a camminare verso la statua di Camillo Benso Conte di Cavour, immagino la serata che vivrò a breve insieme ai miei amici e sorrido con ingenuità e soddisfazione: già vedo infatti i sorrisi, le confessioni, l’energia che attraversa i nostri spiriti senza chiedere permesso e inevitabilmente, mi sento non appartenere più alla perplessità, mi sento a casa, mi sento parte di qualcosa di vivo e dinamico.

Non ho molto da condividere lontano da qui, purtroppo.

Vivo da tempo in esilio e nulla di ciò che sono altrove mi permette di trovare fondamento e forma perché l’esilio, nonostante tutto, è un gesto violento, un contesto che, (non a caso), spezza.

Per quanto io sia bravo a vivere l’ubiquità, resto pur sempre un essere umano ed è naturale soffrire non solo nello spirito, ma anche nel corpo, quando penso che a Roma sono ancora un ospite.

Non appena raggiungo Piazza Cavour, il mio sguardo si perde ad osservare con distacco un signore bizzarro dai lunghi baffi bianchi e dal cappotto color cachi che fuma il sigaro come me ma non è il suo fare che mi incuriosisce, no: è la ragazza seduta proprio dietro di lui, dietro la vetrina di un bar.

All’improvviso, il cielo grigio si schiarisce con timidezza, mi avvicino quindi alla vetrina per assicurarmi di non essere in errore ma basta un attimo per capire che ho sbagliato un’altra volta e la ragazza che ho osservato non era colei che avrei voluto osservare.

Cammino verso la statua dedicata al primo Presidente del consiglio del Regno d’Italia, attraverso la strada, scruto nella direzione di un autobus fermo, scambio una rapida occhiata con il conducente che sta terminando una sigaretta e mi dirigo infine verso una panchina.

Non ho ancora capito se stia piovendo o meno ma la temperatura è comunque mite e approfittando quindi dell’assenza di vento, accendo nuovamente il sigaro e mi accomodo proprio ai piedi della statua che “ignora” il “palazzaccio”.

Qualcosa intorno a me si muove. Lo so. Intorno a me, forze che non posso vedere agiscono in continuazione, garantiscono la vita, il sorgere del sole, la precessione degli astri ma io non mi basto e niente di ciò che so basta perché prima di tutto quello che c’è “al di fuori”, un contesto gretto continua a pretendere la mia anima.

Io non sono come vorrebbe la realtà, io non sono stato uno studente perfetto, un esempio di disciplina, un lavoratore fedele e sempre pronto a fare sacrifici per un consiglio di amministrazione di cui non conosce i membri, un fanatico degli inglesismi, di Linkedin e dello “Smart working”, no: io sono sempre stato qualcuno che sapeva di ciò che c’è “al di fuori” e che non è mai riuscito a capire come poter restare “al di qua” senza mai porsi una domanda.

Scuoto la testa, come se volessi rimarcare le mie convinzioni e dire “no” ma un pensiero traballa, è un pensiero romantico, anarchico che non appena cade in terra esplode: “E’ carina, vero?”

Mi sorprendo. Non è la prima volta che accade ma mi sorprendo di nuovo nel ritrovarmi solo e pensieroso di fronte all’idea di poter conoscere bene una ragazza dopo tanto tempo.

Lei, Lady J., è una ragazza minuta. Non è una diva che può esibire delle prosperose tette ma a modo suo, nel suo essere pacata, cordiale e forse anche un po’ riservata, può permettersi di esibire una bellezza preclusa a molte donne fatte in serie, (dopotutto, alla mia età, le tette non bastano più, giusto?).

La fanciulla che ho ammirato meno di due minuti prima al caffè all’angolo con una via di cui non ricordo il nome le somigliava, ma forse ciò che ho visto non è un frutto del caso ma un pensiero significativo, un messaggio.

“Lo pensi davvero?”        

Sospiro, provo a guardare attraverso la nube di fumo che ho generato il profilo di Castel sant’Angelo ma non vedo molto dalla mia posizione e ripensando alla passeggiata che porta a Ponte Sant’Angelo mi ritrovo nuovamente in due posti allo stesso momento.

“Non basta!” Si grida nel cuore e lo so: non basta!

Vorrei alzarmi, evitare di guardare inutilmente il telefono cellulare e ritrovarmi come per incanto già in una dimensione vicina ai miei amici, a Roma ma non basta il pensiero, non basta la volontà, non basta la riflessione…

Nessun discorso può cominciare con le parole “Se non fossi mai andato via…” perché ciò che è stato è stato.

Certo, potrei ritornare sui miei passi già oggi e riscoprimi pronto a realizzare un progetto necessario ma il tempo basterà?

Non posso non continuare ad interrogarmi sulle cose: io, dopotutto, sono domanda e in quanto tale devo continuare a cercare, è nel mio destino ma per quanto ancora, potrò continuare a fingere che non sopporti lo spettacolo che ho intorno?

Nella sua finzione, la politica e le dinamiche sociali che coinvolgono schieramenti solo apparentemente distanti non mi coinvolgono più, anzi: mi fanno paura.

Da quando ho capito l’importanza di ciò che c’è sotto, anzi, al di là, delle apparenze, politica, economia e società sembrano essere ormai proposte cinematografiche a dir poco scadenti ed è per questo, forse, che tutt’a un tratto i libri e i fumetti sono tornati ad essere straordinari.

“Non basta!”      

Mi perdo ad osservare due avvocati discutere tra loro all’uscita della Corte di Cassazione, una ragazza che si lascia fotografare lontano da loro sulle scalinate imponenti del palazzo, un gruppo di ragazzi che ha sfidato il pomeriggio e ha cominciato a giocare con un pallone “Super Santos” e come se non avessi mai conosciuto l’infatuazione scivolo ancora una volta dove si pensa ad una sola persona.

Le mie preoccupazioni, le mie perplessità relative le trappole che la nostra natura ci prepara per impegnarci e prepararci all’accoppiamento tentano, per un istante, di ricordarmi le mie sconfitte ma invano: io ho diritto di essere felice.

Se potessi, se non dovessi ripartire e ritornare nel luogo dove sono stato condannato a scontare il mio esilio, avrei quel tempo che serve ad un uomo come me per conoscere una ragazza come Lady J., capire le sue virtù, le sue debolezze, apprezzare quella mente razionale ed estremamente pratica che potrebbe senz’altro compensare i miei “castelli in aria” ma “l’anima ho milionaria” di quei castelli che dovrei abbandonare e devo rassegnarmi all’evidenza, alla contingenza che mi vede costretto a non pretendere un diritto che, in realtà, meriterei.

Se potessi, se non dovessi ripartire e ritornare ad annoiarmi, io, Lady J., la inviterei a bere non una ma almeno tre volte a Trastevere.

Se potessi, se non dovessi ripartire e costringermi a non essere ciò che davvero sono, io, Lady J., la inviterei a passeggiare su Via del Corso il venerdì pomeriggio, a mangiare fino a scoppiare, a giocare a Villa Borghese il sabato pomeriggio, a gustare un gelato prima di cena quando il sole tramonta e le strade intorno al Pantheon si riempiono di turisti, a viaggiare “sulla Colombo” ad alta velocità per raggiungere il mare la domenica pomeriggio e a fare l’amore subito dopo per vincere la malinconia che precede il lunedì ma ciò che vorrei non è possibile oggi perché sono spezzato, sono costretto alla divisione del corpo e non so nemmeno perché.

Vivere a metà, senza sapere cosa poter definire fa di me uno zingaro. Uno zingaro ben vestito, sì ma pur sempre uno zingaro e come tale, come figlio del viaggio, come nomade, mi rivedo anche io soggiacere alle condizioni di qualcosa: una volontà impaziente.

La storia ha tragicamente dimostrato che i sogni amorevolmente cullati possono trasformarsi in incubi ad occhi aperti ma io sono pronto a correre il rischio, lo so e sebbene non voglia sacrificare come purtroppo ho già fatto, il presente sull’altare di un futuro ipotetico, qualcosa dentro di me ha ben donde nel gridare a squarciagola che è meglio unirsi e vivere una preoccupazione che restare spezzati e sopravvivere.

Prima o poi, tornerò e risolverò il dramma della disarmonia che mi vede pensare con curiosità ad una persona mentre la mia vita è altrove ma quando accadrà potrò ritenermi finalmente in armonia?

“I’ve been a puppet, a pauper, a pirate, a poetA pawn and a kingI’ve been up and down and over and outAnd I know one thingEach time I find myself layin’Flat on my faceI just pick myself up and getBack in the race…”

Frank Sinatra vince il tempo, come sempre, e non appena cedo alla tentazione di ingannare il tempo con la musica, il cielo sopra di me si spacca, un prepotente e tardivo raggio di sole mi urta, regala gioia e meraviglia al contesto che mi circonda, l’umidità comincia infine ad evaporare e un nuovo fenomeno mi sorprende dunque ancora una volta stupefatto e grato, nonostante tutto…