Il paradosso della contemporaneità

Nonostante tutto, nonostante l’apatia e la mediocrità, non è stato un cattivo affare nascere nel 1994. Si, non aver abbracciato la mia dolce metà per tre mesi in primavera è stato difficile ma se fossi nato nel 1894, avrei rischiato di non abbracciarla più dopo il patto di Londra del 1915.
Come tanti altri, sarei stato costretto a lasciare la mia casa per fare una cosa che probabilmente non avevo mai fatto: la guerra. Sarei stato insomma costretto a strisciare nel fango, sotto la pioggia e le intemperie, a digiunare e a uccidere pur di non essere ucciso. Ogni giorno avrei avuto il dubbio che sarebbe stato l’ultimo e che quindi non avrei più rivisto casa, ogni giorno avrei barattato una cosa buona con Dio o con il diavolo pur di sopravvivere e ogni giorno avrei accettato docilmente di farmi trascinare in un oblio di violenza che mi avrebbe probabilmente dominato per sempre…
Scrivo questo per cercare di risvegliare in chi legge lo stesso senso di gratitudine che ho sempre provato io immaginandomi non comodamente seduto ad un pc ma in un’altra epoca, un’epoca dove gli unici momenti in cui avrei potuto scrivere li avrei trovati tra un omicidio e un sospiro di sollievo.
Con questo non voglio assolutamente affermare che la nostra epoca sia migliore di altre, ogni epoca dopotutto è unica e ha sia pregi che difetti, ciò che voglio cercare di indagare è piuttosto proprio il grande paradosso che fa di un’epoca straordinaria come la nostra un’epoca comunque difficile dove non esiste niente di più invasivo dell’ansia.
Mi spiego meglio: nonostante millenni di riflessione critica, nonostante il metodo scientifico, nonostante il miglioramento delle condizioni socio-sanitarie, qualcosa ci impedisce ancora di vivere il migliore dei mondi possibili e di affrontare quindi lucidamente e serenamente una crisi che oggettivamente non può essere paragonata per gravità a crisi ben più gravi del nostro passato. In altre parole: nonostante tutte le nostre fortune, non siamo capaci di renderci conto che la situazione è si grave ma non gravissima.
Gran parte della mia riflessione quotidiana è nata dopo la lettura di “I cantieri della storia” di Federico Rampini.
Nel libro appena citato, l’autore racconta con grande chiarezza storie di tragedie collettive, sconfitte, decadenza, seguite da “miracoli”, ossia successi costruiti ripartendo dalle macerie.
Nel saggio si parla quindi della caduta dell’impero romano, del monachesimo e del Rinascimento, della Grande depressione e del New deal, del piano Marshall, della Francia della Quinta repubblica, del Giappone che risorge dopo la Seconda guerra mondiale e della Cina che ha saputo in meno di vent’anni assurgere al rango di superpotenza mondiale. Tutto è arricchito di riferimenti tecnici accuratamente descritti e racconti straordinari come quello di Amedeo Giannini, il fondatore della Bank of Italy che finanziò la ricostruzione di San Francisco dopo il terremoto del 1906.
Ogni capitolo, pur apparendo magari lontano dal successivo e dal precedente dialoga con ogni altra parte del libro seguendo un comune filo conduttore: è la reazione collettiva alla sciagura a stabilire se una comunità può perdere o vincere una sfida e la reazione collettiva è spesso un riflesso di un’azione di uno o più leader che sanno avere una visione globale del problema.
Quanto appena scritto viene perfettamente argomentato nel capitolo terzo del libro (“La grande depressione e il New deal”) quando si racconta di come il senso dell’onore e del dovere civico si sia gradualmente perso tra le famiglie più influenti dell’establishment americano: “L’establishment americano di quelle generazioni (il riferimento è alle famiglie Kennedy e Roosevelt) ha un senso dell’onore e del dovere civico, fino a mettere in gioco la vita propria o dei figli. I ricchi fanno il servizio militare e muoiono al fronte come i poveri, i bianchi e i neri. E’ una lezione che andrà perdendosi completamente, fino a segnare delle cesure in seno a una stessa famiglia: il presidente George Bush senior è stato un aviatore e ha rischiato la vita nella Seconda guerra mondiale, il presidente George Bush junior si è fatto raccomandare da figlio di papà per imboscarsi durante la guerra del Vietnam”
In conclusione: cosa resta oggi di quella fibra morale che ha permesso a chi ci ha preceduto di superare crisi ben più gravi di quella che stiamo subendo? Probabilmente nulla. Dietro l’apparenza e la sempre più frequente esaltazione di un’estetica opaca, cosa nasconde la collettività se non un’insicurezza uniforme?
Perché il dibattito quotidiano, pur potendo avvalersi di strumenti e risorse che nessuna generazione ha mai avuto prima di noi, continua ad avvitarsi intorno al bastone della cieca ideologia? Come abbiamo potuto permettere che il merito e il pragmatismo non fossero più elementi da pretendere da parte della politica?
Probabilmente, dietro un uso strumentale e crescente dell’ideologia non si nasconde altro che l’insicurezza di chi non ha mai dovuto affrontare una situazione complessa, ma a chi giova? A chi giova il ritardo nella decisione e quindi nell’azione? Paradossalmente neppure a chi rifiuta i propri doveri di guida che dall’instabilità può trarre solo un beneficio effimero.
Proprio in questi giorni si sta svolgendo un “tira e molla” sul Recovery fund che vede l’opposizione al piano dell’Unione da parte di Polonia e Ungheria, due paesi che sicuramente non godono di una condizione economica positiva e che non possono definirsi simbolo di stabilità. Alle loro reticenze, come hanno risposto tra i paesi membri dell’Unione? Spesso proprio con l’ideologia sovranista: un nuovo paradosso che vuole tutto il contrario di tutto e che pretende di rimettere al centro una indefinita sovranità solo quando conviene. Non è abbastanza per credere che effettivamente manchi qualcosa di piccolo, ma comunque fondamentale, nell’analisi del presente? Non escludo che ne riparleremo…