Che cos’è l’economia circolare e perché può salvare il capitalismo (innovandolo)

L’economia circolare è l’economia dei prossimi anni, l’evoluzione del capitalismo che potrà salvarlo dalla sua congenita crisi sistemica. L’economia circolare si basa su un concetto semplice: gli scarti devono essere riutilizzati costantemente come risorse. Il sistema va quindi armonizzato.

In Europa ci abitueremo a sentire parlare sempre più spesso di circular economy o economia circolare. Il nostro continente infatti punta molto sul settore green, nello specifico sulla filiera del riciclo di rifiuti e risorse. Bruxelles si sta muovendo con decisione. Come ha detto il commissario per l’ambiente dell’Unione europea Karmenu Vella “se vogliamo essere competitivi dobbiamo trarre il massimo dalle nostre risorse, reimmettendole nel ciclo produttivo invece di collocarle in discarica come rifiuti”. Pochi giorni fa la Commissione Juncker ha approvato un pacchetto di norme sulla circular economy che andranno ad avere un effetto pratico sulla vita dei cittadini europei. Il provvedimento obbligherà i Paesi membri a riciclare almeno il 70% dei rifiuti urbani e l’80% dei rifiuti da imballaggio, e vieterà di gettare in discarica quelli biodegradabili e riciclabili. Norme che dovrebbero entrare in vigore dal 2030 e che sono adesso al vaglio del Parlamento europeo. I deputati dovranno trovare un punto di equilibrio sui concetti di ‘rifiuto’ e ‘riciclo’ e armonizzare un sistema che comprende Paesi come la Germania e l’Austria, i quali riciclano già il 66% dei rifiuti.

L’idea punta a costruire un sistema che sviluppi una vera e propria economia da contrapporre a quella lineare che va dalla produzione di un prodotto al suo diventare rifiuto, adottata da sempre.

Secondo la Ellen Macarthur Foundation la circular economy è “un termine generico per definire un’economia pensata per potersi rigenerare da sola. In un’economia circolare i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati ad essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera”. In pratica è un’economia a rifiuti zero, dove qualsiasi prodotto viene consumato e smaltito senza lasciar traccia. Ovviamente nell’economia circolare hanno molta importanza le energie rinnovabili e la modularità e la versatilità degli oggetti, che possono e devono essere utilizzati in vari contesti per poter durare il più a lungo possibile. È quindi evidente che l’economia circolare presuppone un modo di pensare sistemico, che non si esaurisce nella progettazione di prodotti destinati a un unico scopo. È un’economia che non solo protegge l’ambiente e permette di risparmiare sui costi di produzione e di gestione, ma produce anche degli utili.
Il concetto di economia circolare ha profonde radici, ma non si può ricondurre a un singolo padre o a una data di nascita. Convenzionalmente si fa risalire la sua comparsa alla fine degli anni ’70, quando accademici e uomini di affari iniziarono a discuterne. Da allora si sono sviluppate sette diverse scuole di pensiero, spiegate ancora dalla Ellen Macarthur Foundation:
Cradle to cradle: tutti i materiali del processo produttivo e commerciale, sia tecnici che biologici, devono essere ‘nutritivi’ per poter essere continuamente riutilizzati all’interno dei loro rispettivi ‘metabolismi’. Questa teoria elimina il concetto di rifiuto, perché “rifiuto è nutrimento”; si basa esclusivamente sull’energia rinnovabile e rispetta l’uomo e l’ambiente, andando a preservare la salute degli ecosistemi e l’impatto sui luoghi.
Performance economy: Walter Stahel aggiunse alla teoria C2C l’approccio a “circuito chiuso” del processo produttivo che comprende quattro obiettivi principali: estendere il ciclo di vita dei prodotti, realizzare beni di valore duraturi, fare attività di rinnovamento dei prodotti ed evitare gli sprechi.
Biomimicry (imitazione della vita): ossia lo studio delle migliori idee della natura e l’imitazione di disegni e processi per risolvere i problemi degli esseri umani. Tre i princìpi più importanti: studiare ed emulare la natura; usare uno standard ecologico per giudicare la sostenibilità delle nostre innovazioni; valutare la natura non per capire cosa ricavarne ma cosa possiamo apprendere da essa.
Industrial ecology: l’industrial ecology è lo studio della materia e dei flussi di energia attraverso i sistemi industriali. Considerata anche la scienza della sostenibilità, considera i rifiuti come l’input da cui partire per sviluppare un piano industriale che sfrutti l’ambiente, rispettandolo.
Capitalismo naturale: si riferisce a tutta la gamma degli asset naturali, compresi la terra, l’aria, l’acqua e tutte le cose viventi. Si basa su quattro pilastri: incrementare radicalmente la produttività delle risorse naturali; dotarsi di modelli e materiali di produzione ispirati alla biologia; un modello di business volto a garantire una sequenza di servizi; reinvestire sul capitale naturale.
Blue economy: letteralmente: “usare le risorse disponibili in un sistema a cascata, dove il rifiuto di un prodotto diventa l’input per produrre una nuova cascata”.
Regenerative design: è diventato la cornice della circular economy. John T. Lyle teorizzò per primo l’applicazione a tutti i comparti produttivi di quanto già faceva l’agricoltura: studiare un sistema produttivo che rigeneri i prodotti e le risorse.

Ancora una volta appare evidente il ruolo riformatore della mia generazione, chiamata a riscoprire il valore di una serie di opportunità unica in un quadro non solo più nazionale, ma europeo.